‘Pragmatico’. Questo, di norma, è l’aggettivo usato per rimarcare quel che separa il socialismo boliviano da quello venezuelano. O meglio: per spiegare, a fronte d’una comune retorica anticapitalista ed antimperialista, le differenti politiche economiche ed i contrapposti risultati – in un auge scandita dagli sperticati elogi del Fmi, il primo, in una crisi ai limiti della bancarotta il secondo – raggiunti da due leader che si sono sempre proclamati parte d’una medesima rivoluzione. Da un lato la Bolivia di Evo Morales, capace d’amministrare con molto contabile saggezza (in modo ‘pragmatico’, per l’appunto) gli enormi proventi garantiti dal cosiddetto ‘viento de cola’, il ‘boom dei prezzi delle materie prime che, nell’ultimo decennio, ha sospinto in avanti tutte le economie latinoamericane. Dall’altro il Venezuela che Nicolás Maduro ha ereditato, nelle vesti di ‘figlio’ ed ‘apostolo’, dal tenente colonnello Hugo Chávez Frías. Vale a dire: un culto parareligioso in piena crescita ed un modello economico che va disintegrandosi, vittima della ‘grandeur ideologica’ e della inettitudine che, di quel culto, sono in buona parte una diretta conseguenza.
Da un lato conti in regola, inflazione e deficit sotto controllo, riserve valutarie al 48 per cento del pil (la più alta percentuale del mondo), nazionalizzazioni ‘strategiche’ e ben gestite, dialogo (a dispetto della spesso brutale ostilità degli imprenditori) con le forze produttive locali, programmi sociali innovativi, efficaci e pienamente compatibili con i bilanci dello Stato. Dall’altro lo sperpero di ricchezze petrolifere gestite senza alcuna trasparenza per finanziare – nella peggior tradizione caudillista e populista – una gigantesca ed insostenibile ‘macchina del consenso’; negozi vuoti ed inflazione alle stelle, espropriazioni a pioggia, capricciose ed ingestibili, che hanno di fatto distrutto l’apparato produttivo non petrolifero. Da un lato un’utopia paziente e ‘laica’, che sa far di conto. Dall’altro un’ideologia militarizzata, fanfarona e confusa, diventata, anzi nata come culto della personalità e finita – economicamente e non solo – in un rosso profondo…
Ma è davvero questo – ‘pragmatico’ – l’aggettivo giusto? Io credo di no o, almeno, non del tutto. Poiché se è vero che un molto realistico rispetto degli equilibri macroeconomici è, a dispetto della retorica, parte integrante della politica boliviana, vero è anche che questo ‘pragmatismo’ è frutto non solo, per così dire, d’un pratico senso della politica, ma anche, anzi soprattutto, d’una visione strategica molto più sofisticata e profonda di quanto i discorsi di Evo Morales lascino di norma intravvedere. E questo perché dietro la parole di Morales – ed ancor più dietro la politica del suo governo – c’è sempre stato il pensiero del vicepresidente Àlvaro García Linares, matematico e sociologo, ex ideologo, negli anni ’90, del Egkt (Esercito Guerrillero Tupác Katari), da molti considerato uno dei più brillanti intellettuali dell’America Latina d’oggi. Un pensiero che, pur frutto d’una evoluzione complessa, può essere riassunto – sfidando prevedibili accuse di semplificazione – nella parafrasi d’un antica massima latina. Quella che, -tratta, mi pare dal ‘Epitoma rei militaris’ di Vegezio – così recita: ‘Si vis pacem, para bellum’, se vuoi la pace, prepara la guerra. Ovvero: ‘se vuoi il socialismo, prepara il capitalismo’.
In sostanza: se nella realtà Boliviana – da Linera analizzata sulla base di quello che lui definisce ‘marxismo andino’ – si desidera raggiungere la meta d’un socialismo originale, occorre prima costruire un altrettanto originale capitalismo. Per l’appunto: il ‘capitalismo andino-amazzonico’, capace d’amalgamare quelle che Linera chiama le ‘quattro civiltà’ – la industriale, la domestica informale, la comunale e la amazzonica – e di costruire una ‘modernità economica’ vincolata ai mercati globali ed allo sviluppo tecnologico. Base per la costruzione di questo capitalismo – passaggio indispensabile per la costruzione del socialismo – è, per Linera, la creazione d’uno Stato forte. Laddove ‘forte’ sta per soprattutto per ‘decolonizzato’, liberato infine d’ogni scoria coloniale perché capace di riflettere appieno la ‘identità multinazionale’ della Bolivia. Questo è quello che ha fatto la nuova Costituzione del 2007, trasformando per l’appunto la Bolivia in uno ‘Stato multinazionale’. Ed è a questo Stato Multinazionale’ – ‘forte’ perché finalmente espressione di tutte le autonome culture che lo rappresentano e non solo della vecchia oligarchia bianca – che è ora affidato il compito di spingere la Bolivia in direzione del ‘mercato globale’.
I ‘conti a posto’ e la ‘resposabilità fiscale’ che oggi tanto entusiasmano i tecnici – per antonomasia ‘neoliberali’ – del Fmi, non sono dunque che questo. Non tanto, come molti insinuano, un ‘pragmatico’ cedimento alle implacabili leggi del mercato, quanto la molto ragionata parte d’un processo di costruzione d’un forte capitalismo boliviano. O, se si preferisce, un momento della battaglia per la modernità, tappa indispensabile lungo la strada che porta al socialismo. Una strada lunga, ma ancora ben aperta. O, almeno, una strada che ancora non ha portato, come nel Venezuela di Chávez, in un vicolo cieco.