Le elezioni presidenziali in Brasile erano preannunciate come una battaglia politica dura, significativa per gli equilibri mondiali, decisiva per il crescente declino del liberismo in Sud America (ormai arrogante solo nella vecchia Europa e nelle battute della Leopolda), per il conflitto tra crescita nei paesi emergenti e salvaguardia della natura. Ha vinto di stretta misura Dilma Rousseff, candidata del partito laburista (PT), di chiara impronta sviluppista e socialdemocratica, impegnata nella sconfitta della povertà, nella diffusione della sanità anche nelle zone più remote, nell’elargizione di crediti agevolati per case popolari. Intransigente nella difesa della sovranità e indipendenza del suo Paese e a favore dell’unità e dell’integrazione dell’America Latina e dei Caraibi, si è opposta all’egemonia degli Stati Uniti sul continente sudamericano.
Di fatto, il contrasto più sofferto e manifesto di queste elezioni è stato quello tra le due donne con limpidi percorsi: la prima clandestina militante contro la dittatura e consacrata all’equità redistributiva, la seconda “seringuera” dell’Amazzonia profonda, una vita dedicata ad affrontare i conflitti ambientali.
Dilma, interpreta la continuità con le trasformazioni effettuate dal governo Lula: il consolidamento e l’espansione degli accordi di integrazione regionale, il Brics Mercosur, il Consiglio di difesa sudamericano. Marina rappresenta una rottura con il modello di sviluppo economico fondato solo sulla distribuzione del reddito. Alla fine, pur di ottenere compromessi, si è pronunciata a favore di un aggiustamento fiscale che colpisce le rendite terriere, ma risulta favorevole alle banche private a alle relazioni bilaterali con gli Stati Uniti e l’Alleanza del Pacifico.
Così, l’ambientalismo cristallino di Marina si è stemperato e inquinato con ambigui interessi, mettendo in secondo piano una strategia contro la crisi dovuta al debito ambientale e al cambiamento climatico. Marina ha finito col difendere la piattaforma identica, chiaramente neoliberista, di Aecio Neves, trovando una connivenza nei corridoi dei media internazionali e negli Stati Uniti. Un articolo di Omero Ciai su Repubblica dell’11 settembre titola: “Santa e ambientalista: l’ascesa di Marina, la Obama del Brasile che fa tremare Dilma”.
Eppure Marina Silva, era stata indicata da Leonardo Boff nel libro Cuidar da Terra, proteger a vida come “la donna e la politica del nuovo paradigma, che vuole prendersi cura della Terra e salvare la vita umana, specialmente quella dei poveri e degli esclusi”. Lo stesso Boff a settembre ha dichiarato con durezza che Marina aveva cambiato idea appoggiando un progetto neoliberista per l’autonomia della Banca centrale del Brasile, la privatizzazione di Petrobras e la difesa dell’agrobusiness. Così, sia Boff che Frei Betto e Joao Pedro Stedile, dirigente dei Sem Terra, hanno dichiarato di votare per Dilma, pur continuando ad essere poco teneri con il PT e i suoi governi spesso corrotti e compromessi nelle grandi opere.
Fa molto riflettere come spesso la giustizia sociale non marci di pari passo con quella climatica o i diritti della natura e come perfino i più nitidi difensori dell’ambiente possano essere lusingati dal potere.
Sul piano energetico le ambiguità mostrano subito la corda. In questa campagna elettorale Marina ha dichiarato alla Folha de São Paulo del 29 agosto che: “Bisogna uscire dal petrolio e privatizzare la corrotta Petrobras, usare altri fonti di energia, rilanciare la monocultura di canna”. Non faceva parola però sulla politica energetica di un Paese che produce la stragrande maggioranza di energia con l’idroelettrico, un po’ di energia con il nucleare, molto etanolo dalla canna da zucchero ad uso benzina, ben poco eolico, quasi niente solare.
È in atto in tutto il Sud del mondo un processo esportatore/estorsivo che include le risorse energetiche, acqua, minerali e risorse agricole, con progressiva distruzione della biodiversità e dell’equilibrio ambientale, e il trasferimento di terre alle monocolture, sfruttate con pesticidi e Ogm, mentre lo Stato investe nella costruzione di infrastrutture per favorire il flusso di beni naturali mercificati, i cui ricavi in valuta estera raramente tornano al paese. Purtroppo le due donne in competizione non hanno alzato sugli scudi il cambiamento di questo modello. Una delusione se si pensa a Marina, un peccato grave, per la vincente Dilma.