Lunedì 27 ottobre il governo presieduto da Narendra Modi, in qualità di accusa in sede legale, di fronte alla Corte suprema indiana ha divulgato i nomi di diversi imprenditori sospettati di aver depositato fondi neri presso istituti di credito svizzeri. Si tratta di una novità sensibile, almeno a livello formale, che nelle intenzioni del governo dovrebbe segnare l’inizio di una nuova stagione della determinazione nella lotta ai “black money”. Un tema, in India, particolarmente sentito. Negli anni si sono inseguite voci – difficilmente confermabili ma, ormai, entrate nel bagaglio culturale indiano – riferite a somme ingenti messe al sicuro da politici ed esponenti di India Inc. nelle casseforti del paradiso fiscale alpino. In particolare, riferimento incessante viene fatto alla famiglia Gandhi, protagonista negli anni ’80 di uno scandalo di mazzette relativo all’acquisto di armamenti da una compagnia svedese, il cosiddetto caso Bofors. Se coincidenze piuttosto curiose – come la fuga del faccendiere italiano Quattrocchi in Argentina, legato alla famiglia Gandhi, dove ha potuto mettersi al riparo dal rischio di estradizione – fanno dell’affare Bofors uno dei cold case più caldi del panorama indiano, l’evasione fiscale della famiglia Gandhi è percepita come “conclamata” dall’opinione pubblica.
Anche per questo, la campagna elettorale di Modi aveva messo al centro dell’agenda il ritorno in patria dei fondi neri entro 100 giorni dall’elezione. Missione fallita, sbeffeggiavano poche settimane fa gli esponenti del Congress, lanciando la sfida della trasparenza all’attuale esecutivo. E ora, in tutta risposta, stanno uscendo i primi nomi. Si tratta di Pradip Burman, ex pezzo grosso del gruppo Dabur (medicina ayurvedica e relativi prodotti, un colosso nel paese), Pankaj Lodhya (commerciante in oro) e una serie di dirigenti del cantiere navale Timblo, basato nel territorio dello stato di Goa. Su tutti, basandosi su dati consegnati alle autorità indiane dai governi di Germania e Francia, pende l’accusa di evasione fiscale, in quantità ancora da definire. La chiave di volta, infatti, sarà la disponibilità delle autorità svizzere a collaborare nelle indagini: dettaglio per nulla scontato, sbandierato a più riprese come cosa fatta e, puntualmente, smentito.
I presunti evasori si sono immediatamente difesi a mezzo stampa, con Burman a specificare che il proprio conto era stato aperto in passato, quando era un Non resident indian, status giuridico che gli accordava l’esenzione dalle tasse in India. Lodhya, dal canto suo, ha negato l’esistenza di alcun conto a suo nome in Svizzera, mentre da Timblo fanno sapere di voler visionare il documento dell’accusa prima di rilasciare dichiarazioni. L’effetto roboante della pubblicazione dei nomi è stato però ridimensionato dal “peso” dei personaggi in questione: pesci piccoli, lamenta la stampa, “una montagna che partorisce un topolino”. E c’è chi, come R. Jagannathan su Firstpost India, ipotizza che dare in pasto all’opinione pubblica una manciata di pesci piccoli possa essere in realtà un avvertimento per gli altri evasori: spostate i soldi, prima che veniamo a prendervi. E di evasori, per ora ancora anonimi, in India non c’è penuria.
Il documento nelle mani del governo indiano, secondo le indiscrezioni, conterrebbe ben 800 nominativi, tanto che da più parti è arrivata la richiesta di trasparenza totale: finirla coi giochini e pubblicare tutti i nomi subito. Anche prima di sentenza definitiva, poco importa.Vista la proverbiale riservatezza dei paradisi fiscali, per le autorità indiane è difficile quantificare la quantità di denaro sfuggito al fisco locale. Si va a spanne, per una cifra ipotizzata tra i 500 e i 1400 miliardi di dollari, fondi che vanno ad alimentare quell’enorme voragine dell’economia sommersa – da operazioni sul mercato real estate fino al contrabbando – che, assieme a politiche di sviluppo miopi e corruzione dilagante, impedisce la ripresa economica del wannabe gigante d’Asia.
di Matteo Miavaldi