Nei social network, ad esempio, qualche mese fa ho letto il post di uno scrittore che stimo, Christian Raimo, la sua critica a Moravia era feroce. Riflettevo un po’ costernata un po’ persino con ammirazione sulla sua sicurezza. Cosa ho letto, sono arrivata a chiedermi. L’ho amato così tanto Moravia. Di post simili ne sono seguiti altri, di qualche altro autore. Con sollievo giorni dopo l’affondo di Raimo, lessi però Paolo Di Paolo. L’efferetezza del pregiudizio tutto italiano, con sommo sgomento tutto italiano, appresi che cedeva il passo alla gloriosa accoglienza stavolta tutta americana, Moravia dunque vinceva negli States. Ci sta bene, pensai.
La grandezza di Moravia la desumo da lettrice, il revisionismo sul suo contributo alla letteratura mi fa specie.
Moravia è il neorealismo, tutto il resto mi importa poco. Trovatemi uno scrittore oggi che abbia la medesima autorevolezza nel raccontare il suo tempo. Portatemi uno scrittore che riesca a rendermi la bellezza e la decadenza di un’epoca in un incarnato, come Moravia con la sua inarrivabile Andreina ad esempio.
Oggi insorge persino un residuato di moralismo di genere. Elsa Morante era migliore, era più brava. Elsa Morante morì sola, povera, fuori di sé. Sì, va bene, ma c’entra qualcosa con la controversia? Portatemi uno scrittore di adesso, di questi giorni, quale corrente, quale movimento, quale spaccatura, quale rivoluzione, concorrerebbe a rendermelo tale da far impallidire l’altro, quale scrittore che non avete già chiamato autore di talento, capace di raccontare nel suo romanzo-mondo (uh parolone) eccetera eccetera, maledizione, quanto improprio entusiasmo.
Non esiste una graduatoria di merito, sbaglieremmo in ogni caso. A un certo punto è diventata persino una questione di machismo letterario, quando parliamo di Elsa Morante, per dire, cito lei perché l’obiezione è stata sollevata da più parti, ed è assolutamente onesta, plausibile di ogni ragione, il destino della Morante è drammatico, ingiusto, ma non toglie nulla al valore, alla parabola espressiva di Moravia, il disfattista e l’anti italiano, condannato già da quegli anni, il trentennio del Novecento.
Quanta superbia o quanto coraggio anima lo scrittore contemporaneo che opera la revisione, la mortificazione, un tentativo sistematico ma inutile. La mia amica libraia dice che Moravia non lo chiede più nessuno. Elsa Morante sì. Questo non mi solleva per nulla. E’ un problema nostro, se davvero dovesse realizzarsi una censura al contrario – non so come dire – nessuna innocenza basterebbe a perdonarne gli istigatori.
Casomai lasciate da parte l’uomo, in generale, limitatevi ad amare lo scrittore, a riconoscergli malgrado tutto il diritto e lo status. Apro una pagina a caso del romanzo Le ambizioni sbagliate, edizione Garzanti, la terza, datata 1974. Leggo: “(…) Indossava sotto quel pesante e lussuoso involucro niente altro che una sottoveste di velo dagli orli di merletto: non fiera e sdegnosa, ma mezza nuda, insieme provocante e implorante, voleva apparire agli occhi stupiti di Pietro”. A me basta per intendere il lento implacabile declivio della dissoluzione, eccolo, così rapido a mostrarsi. Il senso della tragedia costipa le pagine laconicamente simile alla luce gialla e stantia di quegli interni, al tedio di una classe borghese risonante di ipocrisia, qualcosa che atteneva alla morte, al silenzio. Non posso resuscitare dai suoi detrattori la stima che ritengo dovuta, ma considero gravissimo il tentativo di censura, una battaglia ottusa a guardar bene e mi ripeto inutile, sì inutile.