Tre ore di deposizione, quindici minuti di pausa, 40 domande formulate e due non ammesse dalla Corte d’Assise perché ritenute non pertinenti: sono i numeri della testimonianza di Giorgio Napolitano al processo sulla presunta trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. Un’udienza blindata quella andata in scena nella Sala del Bronzino, già nota nel ‘700 come Sala Oscura perché priva di finestre verso l’esterno, che alla fine si condisce anche di un grande interrogativo: il capo dello Stato si è appellato o meno alla sentenza della corte Costituzionale del dicembre 2012, che, ordinando la distruzione delle intercettazioni tra Nicola Mancino e lo stesso Napolitano, stabilisce il diritto alla totale riservatezza del Presidente su fatti relativi alla propria funzione?
Secondo l’avvocato del comune di Palermo Giovanni Airò Farulla, intervistato dalle televisioni subito dopo la fine della deposizione, il Presidente avrebbe “ritenuto opportuno mantenere la riservatezza” in merito ad un colloquio avuto con Loris D’Ambrosio, il suo ex consigliere giuridico, autore della missiva con cui, il 18 giugno del 2012, confidava al Presidente di essersi sentito “utile scriba” di “indicibili accordi” nel periodo 1989 – 1993. Passano pochi minuti e arriva la smentita diretta dal Quirinale: “Il Presidente – si legge nel comunicato del Colle – ha risposto alle domande senza opporre limiti di riservatezza connessi alle sue prerogative costituzionali”. Da quello che apprende ilfattoquotidiano.it, invece, Napolitano non si è appellato formalmente alla sentenza della Corte Costituzionale, limitandosi ad evocarla e chiarendo di non potere e volere violare i dettami emanati dalla Consulta nel 2012.
L’evocazione di quella sentenza è arrivata effettivamente quando il procuratore aggiunto Vittorio Teresi ha chiesto al Presidente di eventuali incontri privati con D’Ambrosio: Napolitano ha raccontato di aver incontrato il suo consigliere giuridico esattamente il giorno dopo l’arrivo di quella lettera, e quindi il 19 giugno 2012. “In quell’incontro – ha riferito il Presidente – non si parlò degli indicibili accordi, ma solo di fatti inerenti alle dimissioni che mi aveva presentato”. Napolitano ha anche chiarito di non avere mai saputo a quali “indicibili accordi” facesse cenno D’Ambrosio.
Il Presidente, interrogato dal pm Nino Di Matteo, ha rivelato però di essere stato messo al corrente da Luciano Violante della volontà manifestata nel 1992 da Vito Ciancimino di essere ascoltato dalla Commissione Parlamentare Antimafia. Il Presidente ha chiarito di non ricordare esattamente quando e in che modo Violante lo avesse messo al corrente della volontà di Ciancimino: “Nonostante si presume che io abbia una memoria da fare invidia a Pico della Mirandola” ha detto rivolto ai pm.
Ed è stato sempre Di Matteo ad interrogare il capo dello Stato sui fatti relativi all’estate del 1993, quando il 28 luglio due bombe esplodono davanti alle chiese di San Giorgio in Velabro e San Giovanni in Laterano: “Fu chiaro subito – ha spiegato il Presidente – che quello era un ulteriore anello di una strategia unitaria volta a mettere lo Stato in una condizione di aut aut”. Un gesto che per Napolitano veniva dalla fazione più violenta di Cosa Nostra. Gli attentati contro le chiese romane, però, per i servizi segreti sono segnali diretti contro l’allora presidente del Senato Giovanni Spadolini e contro lo stesso Napolitano, all’epoca presidente della Camera. È per questo motivo che tra fine luglio e i primi di agosto il Sismi lancia l’allarme emanando due note: su questo tema Napolitano ha risposto alle domande dell’avvocato Luca Cianferoni, legale del boss Totò Riina, ammesso a sostenere l’esame del capo dello Stato dalla corte d’Assise di Palermo.
“Il 24 agosto 1993 mi stavo recando a Parigi per ragioni istituzionali – ha raccontato il capo dello Stato, che all’epoca era presidente di Montecitorio – e il capo della Polizia Vincenzo Parisi mi chiese un incontro privato: mi informò di quell’allarme che veniva da fonti da prendere con cautela ma non del tutto incredibili”. Il viaggio a Parigi di Napolitano non fu annullato, ma il presidente ha raccontato di essere stato accompagnato in quell’occasione da agenti dei Nocs della Polizia. Al suo ritorno l’allarme era cessato.
Il 24 agosto 1993 mi stavo recando a Parigi per ragioni istituzionali e il capo della Polizia mi informò dell’allarme
Napolitano ha anche spiegato ai pm che, dopo la strage di via d’Amelio, il Parlamento convertì in legge il decreto che nel giugno del ’92 aveva introdotto per la prima volta il carcere duro per detenuti mafiosi. Inammissibile da parte della Corte d’Assise è stata invece ritenuta una domanda dell’accusa, che aveva chiesto al presidente se avesse memoria di dibattiti parlamentari successivi alla mancata proroga di oltre trecento provvedimenti di carcere duro per detenuti mafiosi nel novembre del 1993. Un gesto che l’allora guardasigilli Giovanni Conso ha detto di avere compiuto in completa solitudine. Bloccato dalla corte, perché ritenuto inammissibile, anche uno dei quesiti dell’avvocato Cianferoni: il legale di Riina voleva informazioni su un possibile colloquio tra Napolitano e il suo predecessore Oscar Luigi Scalfaro, alla vigilia del celebre discorso del “Non ci sto” pronunciato a reti unificate. “Prima si è tentato con le bombe, ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali” esordì il presidente della Repubblica, il 3 novembre del 1993. Ventiquattro ore prima era stato lasciato scadere il 41 bis per oltre 300 detenuti mafiosi.