‘Lugano addio, cantavi, mentre la mano mi tenevi’. Non possiamo che cominciare da Ivan Graziani, refrain sul lungolago in questa Italia che non è ancora del tutto Svizzera, in questa Svizzera dove non si sente marcato l’odore del cioccolato o quello dei soldi. Il ‘Fit’, Festival Internazionale del Teatro, ha un nome sportivo, adrenalinico, giovane, frizzante, scattante, aitante, veloce, come la sua direttrice Paola Tripoli, pugliese trapiantata da oltre un decennio e che ha aperto il Canton Ticino ad ospiti europei di ampio respiro.
Quest’anno focus e personaggio cardine, perno sul quale far girare la rassegna, è stato l’inglese Tim Crouch, da Brighton con il furore shakespeariano nelle vene. Attore e drammaturgo, lo spilungone inglese, porta sulla scena con passione e tenacia la sfida al pubblico; il suo ‘I, Malvolio è un corpo a corpo con la platea che cerca di scardinare, far partecipare, emozionare, coinvolgere, punzecchiare, istigare, fomentare. Crouch ha inanellato cinque prove testuali su altrettanti personaggi del Bardo, Fiordipisello, Calibano, Cinna, Banquo, ed appunto Malvolio, maggiordomo de ‘La dodicesima notte’ al quale fanno credere, attraverso una lettera falsa, che la Contessa si è di lui invaghita. E’ un canto del cigno, un percorso a ritroso dentro la vessazione e dentro l’amore non corrisposto, una scrittura verbosa e prolissa, logorroica ed impastata, alta e buffa tra autocanzonature ed aggressività viscerale di un uomo impotente messo con le spalle al muro dalla Storia.
Non solo per ragazzi il delizioso ‘Bistouri‘ dei belgi Tof, una sorta di trasposizione, in chiave fiabesca e colorata del lavoro missione di Gino Strada nei luoghi di guerra. In una tenda da campo militare (dove spicca la bandiera della Pace), in uno scalcinato garage, cialtronesca rimessa, confusionario ripostiglio, e senza molti mezzi a disposizione una sorta di Dottor House, fantoccio e maschera, e infermiere, l’attore che sta dentro il pupazzo, stanno operando un essere mostruoso che ronfa rancido e ringhia acido sotto il lenzuolo. Tra carrucole e pentole ed un’igiene scarsa, si scopre che il paziente in questione è il Lupo (potrebbe anche essere Alberto) delle favole (ma anche il Licantropo del famigerato film, oppure l’Orso che a queste latitudini prima reinseriscono per poi fucilarlo) che deve essere operato d’urgenza per salvarlo dai ‘tumori’ tre porcellini, dall”ernia’ Cappuccetto Rosso, dall”appendicite’ nonna. Nelle sue viscere, scandagliate con una microtelecamera-sonda, si trova di tutto. Qui, non solo si salvano gli innocenti mangiati dalla Belva ma anche la fiera stessa ritenuta non colpevole solo perché ha seguito il suo istinto.
Tema scottante, soprattutto nel confronto tra la giurisdizione italiana e quella svizzera in materia, quello dell’eutanasia, affrontato in ‘QR Code’ della compagnia Ludwig, performance dove è il pubblico chiamato in causa con piena facoltà di salvare o meno l’infermo (nudo) nel suo acquitrinio-stagno-piscina limbo. La platea sceglie di dare da bere al convalescente per donargli altra vita in un accanimento terapeutico e quindi salvarlo, oppure di gettare via l’acqua concedendogli la pace del trapasso, salvandolo comunque: la scelta è di coscienza.
Un passo indietro invece lo compiono i Teatro Sotterraneo con ‘War now!’, esperimento a doppia regia, con il lettone Valters Silis, e l’innesto dell’Artefatti Matteo Angius. Dopo una prima parte dove la loro cifra stilistica del sarcasmo e del politicamente scorretto emerge prorompente sui temi del conflitto bellico, su come e quando sia giusto difendersi, ribellarsi o aggredire un altro Stato, nella seconda il realismo prende il sopravvento in una rappresentazione lineare, con mitra e tute antisommossa e gas lacrimogeni che riportano una verità purtroppo fin troppo ben conosciuta da tv e web. Se ai Sotterraneo togli la risata che fa increspare le certezze rimane un fotoromanzo moralista dove i cattivi (sempre gli altri, i diversi da noi) hanno facce da mostro e dove il bene ed il male sono chiaramente ben distinti e riconoscibili: non un buon servizio alla funzione teatrale.
La palma del miglior spettacolo del festival (cosa che non esiste ma che ci piace assegnare) va ex aequo a due pièce completamente differenti nell’impostazione ma che agiscono e ragionano all’interno degli stessi canoni anche se con codici differenti. Entrambi svizzeri (chi dice che la drammaturgia svizzera sia “arretrata” non la conosce). Da Lugano ‘12parole7pentimenti’ di Rubidori Manshaft, è un’esperienza intima con cuffie e sei step in un percorso cittadino, in una via crucis per andare a scovare, da veri e propri voyeur uditivi, nelle pieghe dei discorsi “rubati” in tre anni di ricerca tra bar, taxi, hotel, bar, centri commerciali. Abbiamo bisogno di raccontarci, di aprirci meglio se agli estranei. Nessuno ascolta più. Cosa pensa la pancia del Paese. Le persone non sono così banali e primitive ed elementari come la politica ci vuol far credere. La salvezza ognuno se la cerca e ricava a modo proprio, affrontando le ansie, i tabù del sesso come della morte con teorie personali, con convinzioni provate sul campo, sulla propria pelle. Il traffico dell’anima (una parte è abitata all’interno di una macchina), un viaggio tra poesia e degrado, tra Alda Merini e Gabriella Ferri.
Da Basilea ‘Imitation of life’ di Boris Nikitin. Appare invece senza stratificazione, al limite del banale (ma è un effetto voluto) dove i due attori sulla scena si raccontano in modo anagrafico, biografico, si presentano in una versione non teatrale: nessun costume, nessuna musica, nessuna scena. Accanto, o meglio a fianco, delle loro autobiografie si aprono scenari filosofici esistenziali sul Cosmo e sull’Universo, sull’accidentalità ed eccezionalità ed unicità delle nostre vite, irripetibili e fallaci. Siamo degli sgabelli in precario perenne equilibrio ma conteniamo anche l’infinito e la poesia ed il pensiero e quella grande forza che è il sopravvivere anche alle peggiori intemperie, ad uno stupro collettivo come ad una bomba in Afghanistan perché se la vita sono dei cocci rotti non resta che sdraiarcisi sopra come fachiri cercando di nuotare in una qualche direzione per cercare il nostro posto al sole, la nostra salvezza, una nuova opportunità.