Il rapporto del Centro universitario per la ricerca economica sulla sanità di Tor Vergata evidenzia che il divario tocca il 35% se si prendono in considerazione solo gli over 65. I soldi per la non autosufficienza, poi, sono spesi male e dispersi in troppi rivoli. In compenso l'invecchiamento "non porterà alla bancarotta del sistema"
L’Italia spende per la sanità il 25% in meno degli altri Paesi europei. Un divario che raggiunge il 35% se si prendono in considerazione solo le uscite pro capite per curare gli over 65. E che è determinato in larga misura dall’andamento della spesa nelle regioni meridionali. In compenso, invecchiamento della popolazione e diffusione delle patologie croniche non porteranno il sistema sanitario pubblico al collasso. Sono le conclusioni del decimo rapporto Sanità dell’Università Tor Vergata di Roma, scritto dai ricercatori del Consorzio per la ricerca economica applicata in sanità e presentato mercoledì alla Camera. Un dossier particolarmente interessante nei giorni in cui il governo Renzi si confronta con le Regioni per trovare la quadra sui tagli richiesti agli enti per finanziare le uscite previste dalla legge di Stabilità. Con i governatori che paventano conseguenze sui servizi ai cittadini, a partire proprio da quelli sanitari. E il ministro Beatrice Lorenzin che continua ad assicurare che il Fondo sanitario, incrementato per il 2015 a 112 miliardi nell’ambito del Patto per la salute, “non si tocca”.
Il dossier mette in evidenza, innanzitutto, come il gap tra la spesa pro capite messa in campo da Roma e quella degli altri principali Stati dell’Eurozona (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna e Svezia) continui ad allargarsi. E a ritmo sempre più rapido. Nel 2012, ultimo anno preso in esame dai ricercatori, risultava inferiore del 25,2 per cento. E addirittura del 34,9% in rapporto alla popolazione over 65. La differenza è però “solo” del 20,1% nelle Regioni settentrionali, mentre in quelle meridionali esplode raggiungendo il 33,3%. Di conseguenza emergono differenze fortissime anche all’interno del Paese. Se la Valle d’Aosta spende 3.169 euro per cittadino, la Campania si ferma a 2.061: un differenziale del 53,8%. Il dato trova conferma anche depurandolo dall’effetto demografico (nelle regioni del Nord si spende di più anche perché la popolazione è mediamente più anziana): la differenza tra le due regioni resta del 48,3%.
Falso allarme invece, secondo il rapporto, quello sull’invecchiamento della popolazione e sulla minaccia per il Ssn rappresentata dall’incidenza delle malattie croniche. I tassi di cronicità di alcune patologie si sono infatti ridotti grazie alla prevenzione, e le nuove tecnologie hanno permesso in molti casi di ridurre i ricoveri in ospedale. Per esempio, negli ultimi 5 anni i ricoveri ordinari per diabete si sono ridotti del 35%, con un risparmio dell’ordine di 5 milioni di euro. E anche per altre malattie che hanno beneficiato di importanti innovazioni terapeutiche si sono osservate riduzioni significative: i ricoveri per artrite reumatoide sono diminuiti del 53%, con un potenziale risparmio di 10 milioni, e quelli per la sclerosi multipla si sono ridotti del 37%, con un potenziale risparmio di 3 milioni. I progressi della ricerca consentono di contenere anche altre voci di uscita: per esempio tra 2004 e 2012 il costo medio per dose giornaliera dei farmaci cardiovascolari si è ridotto del 34,1%, riducendo proporzionalmente il prezzo complessivo della terapia.
Resta però il nodo della insufficiente diffusione dell’assistenza domiciliare: solo in una regione, l’Emilia Romagna, si supera il tetto del 10% di anziani over 65 assistiti a domicilio. In ben 11 regioni (Valle d’Aosta, Bolzano, Toscana, Piemonte, Puglia, Campania, Marche, Calabria, Liguria, Trento, Molise) questa percentuale scende sotto il 4%. Eppure secondo il Crea per la non-autosufficienza (il fondo dedicato è al centro delle polemiche a causa del taglio previsto nella Stabilità) si sono spesi nel 2012 circa 27,7 miliardi, di cui il 28,5% per prestazioni sanitarie e il resto per quelle sociali. La spesa privata è di circa il 7,7%. Complessivamente, spiegano gli esperti del Consorzio, siamo al 1,8% del Pil, valore non distante da quello medio europeo. Il problema sembra dunque essere quello dell’eccesso di frazionamento dei fondi: il 43,8% della spesa va in indennità di accompagnamento gestite dall’Inps, l’11,4% in pensioni di invalidità civile (Inps), il 20,4% in assegni per assistenza residenziale e semi-residenziale, mentre il resto è diviso tra prestazioni domiciliari in natura e in denaro da parte dei Comuni (2,9%), assistenza domiciliare integrata da parte delle Asl (4,8%), lungodegenza ospedaliera (3,4%) e spesa privata delle famiglie per servizi di assistenza a disabili e anziani, pari appunto al 7,7 per cento. “Le varie prestazioni – commenta la ricerca – in molti casi si sovrappongono e, peggio, rispondono a requisiti per l’accesso disomogenei. Ad esempio alcune sono legate al reddito e altre ne sono del tutto indipendenti, con il rischio di generare razionamenti in alcune aree e privilegi in altre”.
Quanto all’equilibrio finanziario del sistema, nel rapporto si legge che il passaggio al federalismo in sanità “non è stato un fallimento: stando ai dati del Ministero della Salute, il disavanzo nazionale si è ridotto del 79,5% dopo l’intervento dei Piani di rientro (2005-2012), passando da 5,8 a 1,2 miliardi, tanto che oggi può ritenersi un problema, almeno temporaneamente, superato”. Ma ci sono eccezioni. A partire dal Lazio, dove nel 2013 si concentrava il 36,2% di tutto il disavanzo nazionale.