Certo che il mondo della musica è strano forte. Tutti si lamentano che non gira più un soldo, che non si vendono più dischi, che anche i concerti ormai non portano più l’indotto di una volta, se non per i soliti nomi grossi, e poi è tutto un proliferare di cover, a ben vedere il mezzo più efficace per far fare soldi a qualcun altro.
I talent, sempre loro, sono una sorta di karaoke un po’ più imbellettato, coi concorrenti che si ritrovano settimanalmente a doversi confrontare con canzoni più o meno note, anche artisti famosi, da Annie Lennox a Lady Gaga, affrontano sempre più spesso la prova della raccolta di standard, come nel caso dei recenti Nostalgia e Cheeck to Cheek, quest’ultimo in coppia tra la Germanotta e Tony Bennett.
Anche la nostra Gianna Nannini sta per uscire con una raccolta di cover di brani scritti da suoi colleghi italiani, un modo per sopperire a una vena autoriale in via di prosciugamento, dicono i maligni. Insomma, le cover imperversano.
Del resto basta andare a fare un giro in rete, a partire dai social, e vedere che c’è chi delle cover, e non solo, ha fatto un proprio cavallo di battaglia. Penso alla giovane Jess Greenberg. Dai, non fate finta di non sapere chi sia, la ragazza che canta canzoni di Led Zeppelin e Fleetwood Mac solo voce e chitarra, perennemente in reggiseno, dicono gli esperti quid che ha garantito alla giovane milioni di visualizzazioni e condivisioni.
In questo panorama paranormale, escono a distanza di pochi giorni due lavori che, simili nelle intenzioni, indicano due modi differenti di affrontare il mondo della reinterpretazione, con risultati altrettanto differenti. Sono infatti arrivati recentemente nei negozi di dischi (concedetemi questo tocco di nostalgia) gli ultimi lavori di studio di due band piuttosto eccentriche, i Primus e i Flaming Lips. E l’hanno fatto non con due raccolte di cover, ma con due album che riproducono nella loro interezza due altri album, dall’inizio alla fine.
I Primus hanno dato alle metaforiche stampe Primus and the Chocolate fatory with Fungi Ensemble, mentre la band di Oklahoma City ha pubblicato With a little help from my fwends, rispettivamente, riproduzione della colonna sonora del film La fabbrica di cioccolato, nella versione anni 70 di David L. Wolper, quella con Gene Wilder nei panni di Willy Wonka, e di Sergent Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles.
Entrambe le band, lo abbiamo detto, sono piuttosto eccentriche, a loro modo psichedeliche (nel senso che la loro musica sembra spesso prodotta sotto l’effetto di sostanze psicotrope), il che dovrebbe garantire una certa originalità di fondo, nel momento in cui ci si mette di fronte alla reinterpretazione dell’opera di qualcun altro in maniera tanto consistente, in realtà, i due lavori lo dimostrano in maniera anche troppo evidente, non sempre essere “strani” è garanzia di originalità. O quantomeno, non sempre l’originalità coincide con il buon esito finale.
I Primus, infatti, tornati nella versione iniziale con Claypool, bassista e cantante, affiancato da LaLonde e Alexander, prendono la colonna sonora di un film che, è chiaro, è stata parte integrante della loro formazione, del loro immaginario, e, da veri campioni, la rimasticano, digeriscono e fanno propria, regalandoci un lavoro difficile, come sempre, ma capace di garantirci un’esperienza unica, fatta di emozioni sorprendenti, tipiche dell’infanzia, di paure, di divertimento, di spiazzamento.
Un giro in giostra, quindi, a 100 km all’ora. I Flaming Lips, costretti dalle gabbie che il fare cover impone (se si cambiano linea melodica e testi tocca chiedere il permesso ai detentori dei diritti, e nel caso dei Beatles è praticamente impossibile), ci regalano invece un lavoro sì difficile, ma non certo per elaborazione, quanto per resa. Non potendo mettere mano agli spartiti, infatti, come già era capitato di recente decidono di lavorare sulla summa di sonorità e ospitate, mettendo sul piatto un cous cous carico di spezie e di sapori, decisamente troppi.
Quasi trenta ospiti, diciamolo francamente, sono decisamente troppi. E anche il giocare su suoni discordanti, calcando la mano sulla psichedelia già presente nell’originale, creano un lavoro ostico, a tratti anche poco piacevole. Era già successo in passato, del resto, quando Wayne Coyne e soci si erano cimentati in Dark side of the moon dei Pink Floyd e nell’album d’esordio degli Stone Roses, più recentemente.
Una perla però c’è, dentro questo minestrone, ed è la versione di Lucy in the sky with diamonds, in compagnia di Moby e soprattutto di Miley Cyrus. Proprio quest’ultima, più spesso sotto l’attenzione del pubblico per le chiappe al vento e le sue pose eccessive, dimostra una capacità interpretativa notevole, come già era capitato di notare a quanti avessero ascoltato le cover che è solita pubblicare su Twitter. Oltre al perizoma c’è di più. Ci tornerò sopra.
Due lavori difficili, quindi, ma entrambi meritevoli di attenzione, più il primo che il secondo. Ma visto che si parla di band capaci di creare un loro mondo sonoro, un loro universo, chiudo citando una band sconosciuta ai più, se non addirittura sconosciuta a tutti, che merita attenzione. Si tratta di un combo del nord-est italiano, Mosca nella palude, capitanate dal giovane medico Giovanni Belcari. Il loro album Ultrafuck, figlio proprio di una grande famiglia che vede come genitori putativi Les Claypool, Mike Patton, Thurtston Moore e uno a caso dei campioni del grunge, è di quelli che difficilmente uno stereo che sappia fare il suo mestiere si decide a sputare fuori, una volta ingoiatolo. Una specie di mix di quanto la cultura musicale occidentale, in ambito rock, ha prodotto nell’ultima parte del secolo scorso, miscelato e triturato e tirato fuori in una versione degna di nota. Fossi proprio Les Claypool o Wayne Coyne, al prossimo giro in Italia, non avrei dubbi su chi chiamare sul palco come opening act. Mosca nella palude, segnatevi questo nome.