Ascesa e caduta di Mussari imposto dalla politica senese prima alla guida della Fondazione Montepaschi e subito dopo al vertice di Rocca Salimbeni. Con il sostegno trasversale di tutti i partiti, compreso Forza Italia che in Toscana poteva contare sulle relazioni di Denis Verdini. Ma soprattutto del Pd, a cui era iscritto e che ha pure finanziato
Tre anni e sei mesi di reclusione ciascuno con l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni perché hanno ostacolato la Vigilanza nella ristrutturazione del derivato Alexandria. Meno della pena chiesta dall’accusa per l’ex presidente del Monte dei Paschi, Giuseppe Mussari (7 anni), l’ex direttore generale Antonio Vigni (6 anni) e l’ex capo dell’area finanza Gianluca Baldassarri (6 anni). La tesi della Procura, dopo quattro ore di Camera di Consiglio, è stata comunque accolta. E quella emessa venerdì 31 ottobre dai giudici senesi passerà comunque alla storia come la prima condanna di un intero sistema alimentato dal “groviglio armonioso“. Quello tra politica, banca, fondazione ma anche sport e stampa locale. Il groviglio che ruotava attorno a Mussari – assente all’udienza – che per anni è stato riverito come un re mentre oggi viene trattato come un monatto. Mussari imposto dalla politica senese prima alla guida della Fondazione Montepaschi e subito dopo al vertice di Rocca Salimbeni. Con il sostegno trasversale di tutti i partiti, compreso Forza Italia che in Toscana poteva contare sulle relazioni di Denis Verdini.
Ma soprattutto del Pd, a cui Mussari era iscritto e che ha pure finanziato. Secondo i dati ufficiali della Camera dei Deputati, dal 27 febbraio del 2002, data del suo primo assegno al partito, fino al 6 febbraio del 2012, l’ex presidente di Mps ha versato a titolo personale nelle casse del movimento ben 683.500 euro. Finanziamenti ovviamente leciti e tutti dichiarati. Ma che danno comunque il senso della stretta vicinanza con il partito. Non solo. Il sostegno a Mussari era garantito a Roma e nei salotti della finanza che ha consentito all’ex numero uno del Monte di diventare presidente dell’Abi, la lobby dei banchieri, nonostante lui di mestiere facesse l’avvocato.
A brillare, al tempo, era anche la stella di Antonio Vigni che diventa direttore generale l’appoggio politico della Fisac CGIL e grazie ai buoni rapporti con l’allora sindaco di Siena Maurizio Cenni. Intrecci, anzi grovigli, emersi dagli interrogatori contenuti nei faldoni dell’inchiesta. Come quello dell’ex sindaco di Siena nonché ex deputato Ds (al tempo dei fatti), ex presidente della Commissione Finanze, ed ex segretario del partito, Franco Ceccuzzi. Che nel novembre del 2007 viene a conoscenza del blitz di Mps su Antonveneta prima di leggerlo sui giornali e poi lo annuncia con tanto di complimenti all’amico e al tempo segretario cittadino dei Ds. Il quale, nella stessa testimonianza rilasciata ai pm senesi, fornisce anche molti dettagli sul ruolo avuto dal partito a livello locale e romano – era il 2006 – nella nomina di Mussari alla presidenza del Montepaschi e di Gabriello Mancini al timone della Fondazione. Ceccuzzi cita un colloquio con Piero Fassino, all’epoca segretario nazionale, che disse “di fare scelte oculate per il bene della banca e del territorio”, ma anche Massimo D’Alema e Vannino Chiti “che auspicavano un ampliamento della banca”.
Colloqui ripetuti anche nel gennaio del 2012 con Pierluigi Bersani e D’Alema quando – dice lo stesso Ceccuzzi ai pm – “per la carica di presidente della banca ero contrario a una riconferma di Mussari”. L’ex sindaco riferisce dunque la sua presa di posizione “che era di rottura con il sistema passato. Ho chiesto loro sostegno politico per l’operazione che da lì a qualche mese sarebbe stata fatta e l’onorevole Bersani mi disse che avrei avuto il sostegno del partito”. Con D’Alema Ceccuzzi parla anche della nomina di Alessandro Profumo “che aveva delle remore” ad accettare l’incarico. “Sapendo di un rapporto di conoscenza con l’onorevole D’Alema gli chiesi di poter parlare con Profumo per convincerlo ad accettare l’incarico”.
Corsi e ricorsi della storia. Di certo, quella di venerdì è la prima sentenza relativa alla mole di inchieste iniziate nel 2010 con i riflettori accesi dalla magistratura sulla privatizzazione dell’aeroporto di Ampugnano fino alle indagini aperte nel 2012 sulla sciagurata acquisizione di Antonveneta. “E’ il primo passo per stabilire la verità, non solo processuale, di quanto accaduto in questa città negli ultimi vent’anni”, spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocato senese Luigi De Mossi, che rappresenta alcune delle parti civili per il filone Antonveneta trasferito a Milano. Una condanna penale che è sempre personale ma sancisce anche un giudizio politico e storico per un’intera classe dirigente che per anni ha determinato le sorti del Monte e della Fondazione Mps. E che coincide inoltre con quella del mercato. Quella di oggi era la sentenza in merito al filone d’inchiesta Alexandria. A breve dovrebbe decollare l’altro filone trasferito a Milano relativo all’acquisizione di Antonveneta. Non è ancora finita. Né in tribunale, né in Borsa. Nessuno oggi si vanterebbe di dire al telefono: abbiamo una banca. Nemmeno i senesi.