Grazie alla nomina di Paolo Gentiloni ministro degli esteri prosegue con stivali delle sette leghe la margheritizzazione del Pd. Per cui risulta patetico Gianni Cuperlo quando va a dire in Tv che il proprio leader è il segretario neoDem, che va portato su posizioni di sinistra sempre più avanzata. Quando quel segretario si chiama Matteo Renzi e le sue posizioni – nel liquefarsi del blocco berlusconiano – sono quelle di puntare all’acquisizione di due voti di destra per ogni voto perduto a sinistra. Tutto molto evidente. Come altrettanto evidente è che i Cuperlo non abbandoneranno la scialuppa renziana fino a quando la capacità di intercettare voti del leader-sovrano sarà garanzia di rielezioni sicure in Parlamento, anche per “l’opposizione del re” (purché “stia al suo posto”).
Ancora una volta assistiamo alla dissociazione tra le parole della politica e i relativi comportamenti. Berlusconi prometteva “la rivoluzione liberale”mentre realizzava lo sdoganamento dell’illegale. Renzi cinguetta di vera sinistra quando ne liquida il patrimonio ideale sull’altare di un presunto novismo. Operazione cui occorrerebbe prestare maggiore attenzione, visto che le distorsioni lessicali annunciano forme di restaurazione sottotraccia. Trasformabile in una sorta di repressione 2.0.
Per questo bisognerebbe seguire l’ombra di un altro margherito a corte: il cardinal Mazzarino del Renzismo, il silente Filippo Sensi.
Sensi lo ricordo due decenni fa come un tombolotto molto acculturato e molto cattolico. Lo persi di vista quando – guarda caso – divenne portavoce del sindaco Francesco Rutelli. Da lettore bulimico Filippo può suggerire al suo assistito il remake del plot thatcheriano, per cui si consolida la presa sull’area centrale del corpo elettorale massacrando il sindacato. Forse allo spin doctor dei Castelli manca la pagina che spiega come una vicenda si presenti la prima volta sotto forma di tragedia e la seconda di farsa… Ma i cattolici tradizionalisti non hanno il senso dell’umorismo. Veste in cui il Sensi può tentare di esorcizzare tramite il proprio boss il fenomeno massimamente detestato dalla sua parte culturale, ossessionata dal mito ecumenico: il conflitto sociale.
Non a caso è in corso quella restaurazione sottotraccia che rischia di trasformarsi in repressione postmoderna, 2.0. Quanto si intuisce da recenti roteare di manganelli.
Ma qui il Mazzarino dell’on line deve farsi da parte davanti allo sfrenato protagonismo del premier; e all’originale mood regionale che va proiettando sulla scena politica nazionale. Apparentemente quella di Renzi è una Toscana alla Leonardo Pieraccioni, pacioccona e calligrafica. Ma dietro le quinte fa capolino un sentiment molto più oscuro, tra maneggio e tracotanza; pregiatore del potere come puro decisionismo e – dunque – propugnatore di scorciatoie semplificatorie che considerano le regole democratiche e i controlli/contrappesi fastidiose perdite di tempo. Del resto, non penserete certo che l’aretino Gran Maestro Venerabile Licio Gelli sia saltato fuori dal vuoto pneumatico!
Per dire che di Toscane ce ne sono molte (e quelle renziane non sono sempre le più apprezzabili). Ad esempio c’è chi preferirebbe la costa, tra Livorno e Piombino; dove resistono antichi umori operaisti e rabbiosi, di chiare origini portuali e siderurgiche. Il mondo cantato dal cantautore anarchico Piero Ciampi. Le cui note amare non le sentirete mai nelle filastrocche del premier; con cui vuole rintronarci per far passare ricette di chiara ispirazione gelliana. Ma 2.0. Mentre cerca di fare il simpatico come un Pieraccioni; con quella comicità buonista e stiracchiata, funzionale alla restaurazione sottotraccia gabellata per novismo. Sempre all’insaputa.