A distanza di quattro anni dal suo ultimo “A Christmas Cornucopia”, Annie Lennox torna con un nuovo lavoro solistico nel quale rivisita classici del jazz anni ’30 e ’40. Quella della scozzese Annie Lennox è una delle voci più conosciute della musica pop e deve buona parte del successo ai suoi Eurythmics, duo che la vedeva nuovamente insieme a Dave Stewart con il quale agli inizi degli anni settanta aveva formato i The Tourists. Sarà il secondo album degli Eurythmics – “Sweet Dreams (Are Made of This)” del 1983 – a portarli al successo planetario vendendo da quel momento più di 75 milioni di dischi. Con l’inizio degli anni novanta Annie Lennox intraprende la propria carriera solistica, divenuta più interessante nell’ultima decade.
In questo nuovo lavoro in studio la cantante sposta il suo ambito di azione tentando di esplorare aspetti diversi della propria voce, spesso però senza davvero piegarla alle lacerazioni di un animo blues: “Strange Fruit” ne è un esempio. La canzone – scritta nel 1930 ed eseguita e pubblicata da Billie Holiday nel 1939 – ha avuto negli anni infinite interpretazioni da parte di artisti appartenenti a generi spesso anche molto diversi tra loro. Venne scritta dall’insegnante Abel Meerpol dopo aver visto la foto di uno degli innumerevoli e macabri linciaggi che stavano avvenendo nel sud degli Stati Uniti, terra che continuava ad essere stretta in un’orrenda morsa di razzismo. “Strange Fruit” è un monumento che gronda sangue, e negli ultimi quattro versi dipinge con dolorosa ironia i frutti della follia umana: “Here is fruit for the crows to pluck / For the rain to gather, for the wind to suck / For the sun to rot, for the trees to drop / Here is a strange and bitter crop”. Annie Lennox è da anni impegnata nella lotta per i diritti umani ecco perché questo brano assume per la cantante un significato ancora più particolare, ma nonostante l’ottima esecuzione, la canzone sembra mancare di quello spessore ed empatia che solo il vero e profondo dolore riesce a donare.
L’album “Nostalgia” – come suggerisce lo stesso titolo – è un viaggio indietro nel tempo, e a rimarcare questa caratteristica ci pensa l’intro cantato di “Memphis in June” che sembra uscire da un vecchio grammofono. Annie Lennox con la sua voce prova a donare una luce diversa ai dodici brani scelti, arricchendoli con arrangiamenti essenziali ed eleganti. La scelta delle canzoni aiuta sicuramente l’ascoltatore e permette di ricordare, ancora una volta, quanto in passato si prestasse molta più attenzione alla ricerca melodica: ogni brano di questo album – da “I Put a Spell on You”, alla “Summertime” di Gershwin, “Georgia on my Mind”, fino a “September in the Rain” – ha un’originaria potenza melodica talmente forte da insinuarsi e stabilirsi per sempre anche nella mente delle poche persone che ancora non sono a conoscenza di questi classici.
Molti dei brani eseguiti hanno forti radici blues e in quanto tali si lasciano plasmare senza perdere nemmeno un granello della loro originaria bellezza. La Lennox prova ad usare la propria voce come uno strumento, tentando di adattarla alla miriade di sfumature tipiche di un blues. Il finale è ottimo con una versione dell’Ellingtoniana “Mood Indigo”, brano che affonda i propri versi nella sfumatura più scura del blues e che qui, sul finale strumentale, sembra atterrare sulla vecchia New Orleans per dare vita ad una marcia che ha il sapore di una vera e propria celebrazione della vita.