Pronti a indagare di nuovo, a individuare nuovi fatti, cercare nuove prove. Perché le sentenze vanno rispettate anche quando non si condividono, ma non si può accettare la morte di chi è affidato allo Stato. Dopo i giorni delle polemiche, della rabbia, degli scontri incrociati, è il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone a parlare del caso di Stefano Cucchi, il geometra romano di 31 anni arrestato nel 2009 per droga e morto una settimana dopo in ospedale, a seguito dell’assoluzione in appello di tutti gli imputati del processo (sei medici, tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria). “Non è accettabile – dice – dal punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello Stato”. Per Pignatone la responsabilità certo resta “come vuole la Costituzione, personale, e non collettiva, e deve essere riconosciuta dalle sentenze dei giudici, che tutte meritano assoluto rispetto anche quando, come nel caso di specie, tra loro contrastanti e, a parere dell’ufficio di procura, in tutto o in parte non condivisibili“. Secondo Pignatone, “nel caso in questione, poi, la sentenza di appello non è ancora definitiva e non se ne conoscono le motivazioni; essa, peraltro, giunge dopo un lungo e complesso iter processuale nel corso del quale tutte le parti, pubbliche e private, hanno potuto richiedere ai giudici gli accertamenti e gli approfondimenti ritenuti opportuni o necessari”.
“Tutte le sentenze meritano assoluto rispetto anche quando, come nel caso di specie, tra loro contrastanti e, a parere dell’ufficio di procura, in tutto o in parte non condivisibili”
Il passo avanti del procuratore capo è la disponibilità a rimettere mano agli incartamenti soprattutto in caso di fatti nuovi o altre prove. “Se emergeranno fatti nuovi o comunque l’opportunità di nuovi accertamenti – dichiara il magistrato – la Procura di Roma è sempre disponibile, come in altri casi, più o meno noti, a riaprire le indagini”. “Per quanto mi riguarda – prosegue – incontrerò volentieri, come già altre volte in passato, se lo vorranno al mio rientro in sede, i familiari di Stefano Cucchi e il loro difensore. Se dalle loro prospettazioni e dalla lettura della sentenza di appello emergeranno fatti nuovi o l’opportunità saremo disponibili a cercare nuove prove nel rispetto, ovviamente, delle regole dettate dalla legge”. In mattinata era stata la famiglia Cucchi, infatti, a annunciare che domani – 3 novembre – sarà davanti al palazzo di giustizia di Roma per chiedere un incontro al procuratore Pignatone. A intervenire in giornata è stato anche il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri: “E’ giusto e corretto chiedere la riapertura della indagini. La verità va ricercata sempre e fino alla fine”.
Orgoglioso che Roma abbia un procuratore capo come Giuseppe Pignatone, disponibile a riaprire le indagini. #Cucchi
— Ignazio Marino (@ignaziomarino) 2 Novembre 2014
La sorella di Stefano: “Azzerare le perizie fumose”
“Prendiamo atto di questa importante decisione del procuratore capo della repubblica di Roma – ha subito replicato Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano – Rimaniamo in attesa di giustizia e verità come abbiamo sempre fatto in questi cinque anni. Possiamo dire che vanno azzerate tutte le perizie e le consulenze che hanno fatto solo fumo e nebbia sui fatti”. La famiglia Cucchi – padre, madre e sorella – aveva già annunciato che si presenterà davanti alla procura con maxi-cartelloni raffiguranti Stefano. “Andremo solo noi tre – ha detto Ilaria Cucchi – senza alcun sit-in, presidio o altro. Vogliamo far vedere come Stefano è morto e le condizioni con le quali ce lo hanno riconsegnato”. Nella stessa mattinata Ilaria e la sua famiglia chiederanno un incontro al procuratore Pignatone. “Voglio chiedere al dottor Pignatone – aveva detto in precedenza Ilaria Cucchi – se è soddisfatto dell’operato del suo ufficio, se quando mi ha detto che non avrebbe potuto sostituire i due pm che continuavano a fare il processo contro di noi, contro il mio avvocato e contro mio fratello, ha fatto gli interessi del processo e della verità sulla morte di Stefano”.
Ilaria al presidente della corte d’appello: “Gogna? Solo critiche”
Ilaria Cucchi in giornata aveva scritto anche una lettera aperta a Luciano Panzani, presidente della Corte d’appello di Roma, che aveva difeso i giudici che hanno assolto gli imputati del caso Cucchi invitando a non sottoporli a una gogna mediatica: “Nutro profondo rispetto per la magistratura. Rispetto, ma non venerazione – si legge – Non credo di mancare di rispetto a Lei e alla Magistratura se mi permetto di dire che le critiche rivolte ai suoi colleghi sono tutt’altro che una gogna. Chiedere responsabilità per chi sbaglia e commette gravi e ripetuti errori non significa metterlo alla gogna”. Per Ilaria Cucchi “invocare responsabilità per chiunque sbagli e commetta gravi errori non significa metterlo alla gogna. Processare un ragazzo di soli trentun anni, dopo averne causato la morte tra atroci sofferenze come può essere allora definito? Processare la sua famiglia, definire in aula Stefano come un tossicodipendente da vent’anni, cafone e maleducato, cosa vuol dire?”.
Ilaria Cucchi sottolinea di non aver “criticato la sentenza. Ho nelle orecchie le parole del mio avvocato pronunciate in udienza preliminare quasi con disperazione. Ho nella mente il suo monito ai pm ‘con questo impianto accusatorio e con questi consulenti e con questo capo di imputazione ci porterete al massacro’. Io voglio chiederle ancora solo questo: il 16 ottobre 2009 Stefano veniva portato, pestato e sofferente, nel suo tribunale di fronte ai suoi colleghi, indicato come albanese senza fissa dimora. Era sofferente e lo ha detto; nessuno lo ha guardato e tantomeno considerato. Era in condizioni tali da fare pietà ai sanitari ed agli stessi agenti che lo hanno via via preso in consegna. Ma nessuno ha fatto nulla e tutto è stato considerato normale. Senza che si debba parlare di gogna, che cosa un cittadino normale di un paese che si vuole definire normale può pensare di tutto questo? Meglio nascondere e tacere? Mi dica lei”.
Il sindacato Silp Cgil contro il Sap: “Presa di posizione fuori luogo”
Intanto il sindacato di polizia Silp Cgil prende posizione nei confronti dei colleghi del Sap che aveva detto che chi “conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze”. Frasi, spiega il segretario del Silp Daniele Tissone, che “superano, di gran lunga, ogni obiettiva valutazione tesa a ricostruire una non facile verità processuale acuendo, visto il tenore di simili dichiarazioni, il solco tra la società e chi, tra le forze dell’ordine con sacrificio e impegno, assolve i propri compiti istituzionali”. Tissone sottolinea come il Silp, durante tutte le vicende processuali da Aldrovandi a Cucchi, di “affermare il principio che la magistratura inquirente ha il compito di esercitare a pieno il proprio mandato senza che, derive cooperativistiche, da qualsiasi parte provengano, intaccassero, mai, tali giudizi”. Per questo, secondo il Silp, la presa di posizione del Sap è fuori luogo e non aiuta il percorso democratico che deve vedere cittadini e forze dell’ordine unite nel comune obiettivo di garantire sicurezza, legalità, giustizia e trasparenza alla luce dei difficili compiti che vengono affidati ai tutori dell’ordine ai quali vanno riconosciuti i giusti diritti e che “servono il Paese consci del delicato compito loro affidato senza venir meno a responsabilità e doveri che attengono al loro lavoro”.