Le ferrovie dello Stato da un po’ di tempo hanno aggiunto a FS una I (“FSI”), dove la I finale sta per l’Italia, per non essere da meno ad Autostrade per l’Italia, e sarebbero disponibili a estendere la loro attività ai trasporti urbani, in particolare quelli di Roma e di Milano. Sono già presenti nel settore: stanno concorrendo per l’azienda torinese e hanno già vinto la gara (a lotto unico) per quella di Firenze. Secondo alcune voci maligne, a Firenze hanno vinto soprattutto perché si è preferita un’azienda italiana politicamente “robusta” a infidi stranieri, quali erano gli altri due concorrenti. C’è comunque un aspetto positivo nella vicenda fiorentina: per la prima volta in Italia abbiamo una grande città che non solo ha fatto una gara, ma ha rinunciato alla proprietà dell’azienda. Se il Comune di Firenze non sarà contento dei risultati, litigherà con FSI, e non con se stesso come fanno tutti gli altri, proprietari delle aziende urbane. Ma l’eventuale avvento di FSI nel settore presenta molti più aspetti negativi che positivi, e questo certo non per qualche colpa o demerito dell’azienda ferroviaria, ma al contrario perché questa è troppo forte, cioè ha un potere politico ed economico “innegoziabile” (questo potere, nel linguaggio degli economisti, è noto come clout).
Infatti FSI ha caratteristiche peculiari. È un’azienda totalmente pubblica, quindi per definizione gode di forti appoggi politici, riceve moltissimi sussidi dallo Stato (“corrispettivi”, come FSI preferisce chiamarli), la rete ferroviaria è un monopolio naturale esteso e la gran parte dei servizi passeggeri sono esercitati in condizione di monopolio legale, anche se vi sono state gare per alcuni servizi locali (nessuna di queste è stata vinta da concorrenti). FSI è un’impresa fortemente dominante (circa il 90 per cento del fatturato del settore) e non può fallire, a differenza di ogni altra impresa. Ciascuno dei punti precedenti sarebbe motivo sufficiente per sconsigliare l’ulteriore rafforzamento di FSI, rendendola ancor meno controllabile dal regolatore pubblico (in questo caso dalla neo-costituita Autorità per la Regolazione
dei Trasporti). Si tratterebbe di “integrazione verticale di impresa dominante”, e di solito in questo caso si registra un intervento censorio da parte del regolatore pubblico.
Proprio per questo potere la cessione di aziende di trasporto urbano a FSI è auspicata dagli amministratori locali. Cesserebbero di colpo per loro moltissimi problemi economici e gestionali. Illuminante in proposito è l’affermazione (in privato) dell’assessore ai trasporti di una delle città coinvolte: “Come sarebbe bello cedere l’azienda a FSI, quelli i soldi dallo Stato riescono sempre ad averli, e quanti ne vogliono”. Una assoluta verità. E ovviamente questo ingresso di FSI renderebbe impossibile fare gare per piccoli lotti, cioè la strategia che in Europa si è rivelata la più efficace per razionalizzare i servizi. Ma la perla finale di questa vicenda è verbale, e scaturisce dalla dichiarazione di interesse di FSI per l’ingrasso nelle aziende di Roma e Milano: si tratterebbe, secondo l’amministratore delegato di FSI di Michele Elia, di una “privatizzazione”, anche se FSI è al cento per cento di proprietà pubblica. Tutte le ferrovie europee aborrono l’uso dei termini “monopolio”, “sussidio”, “dominante”, “pubblico”. Amano raffigurare se stesse, e spesso riescono a farsi raffigurare dai media, come aziende private che operano nel mercato. Poi però, nei rari casi in cui emergono pubblicamente gli elevatissimi costi che generano alle casse pubbliche, ribadiscono la loro vocazione sociale, e il fatto che operano soprattutto per il benessere della collettività troppo umano. Al management ferroviario non tocca certo rinunciare a parte del proprio potere. Tocca allo Stato costringerlo a farlo, per difendere utenti e contribuenti.
Ma sembra esserci una lodevole eccezione al quadro sopra descritto: il presidente di FSI, il professor Marcello Messori aveva una importate delega di cui si stava occupando: quella sulle modalità di privatizzazione parziale del colosso pubblico. Due scuole di pensiero si fronteggiano: una è quella di fare entrare investitori privati con la cessione di quote azionarie, operazione che garantirebbe la forza contrattuale e politica del gruppo FSI. L’altra visione è opposta: cedere quei rami d’azienda che non ha più senso siano in mano pubblica (l’Alta Velocità, i servizi merci, alcuni asset della rete). In questo modo il potere politico-monopolistico di FSI diminuirebbe, con benefici per gli utenti e le casse pubbliche. Domenica Messori ha annunciato di aver rimesso tutte le deleghe, escluse quelle, in gran parte formali, di “controllo”, con motivazioni che sembrano attinenti proprio a divergenze sulle modalità di privatizzazione. Conoscendone il pensiero e il rigore, vi sono pochi dubbi di quale modello dei due sopra descritti fosse sostenitore. La coerenza con le proprie convinzioni nella sfera del top-management pubblico è cosa davvero rara in Italia. C’è da sperare che la politica, per una volta ne prenda atto, e ne tragga le conseguenze.
Da Il fatto quotidiano del 29 ottobre 2014