Anche la discografia affronta la sua crisi: tra la crescita esponenziale dell’ascolto gratuito, di cui la rete si fa trionfante alfiere, e vendite dei dischi in calo costante, le tradizionali case discografiche riorganizzano il loro assetto. Gli investimenti sui nuovi progetti sono sempre più esigui e l’approccio alla ricerca del talento privilegia la quantità a discapito della qualità. C’è chi si arrende e chi tenta nuove strade. Una di queste è l’autoproduzione. Nata in Inghilterra negli anni ‘80 sulla scia del movimento punk, l’autoproduzione rappresentava un’alternativa rivoluzionaria ai condizionamenti delle major, fino a diventare, in seguito, una scelta consapevole di numerosi artisti affermati. Oggi invece rappresenta sempre più una prassi, diffusa nell’ambito indipendente e non solo. Presupposto cardine è un investimento economico in prima persona da parte dell’artista o band, che permetta di coprire le diverse fasi della lavorazione del prodotto – dalla registrazione, alla stampa del supporto fisico, alla promozione dello stesso; la speranza è che quanto investito possa significativamente contribuire ad un reale incremento della popolarità.
Relativamente alle realtà coinvolte, le visioni sono diverse. Partiamo dagli Jang Senato, band attiva sulla scena indipendente dal 2008 che esordisce ufficialmente nel 2011 con un disco totalmente autoprodotto ”Lui ama me, lei ama te” [Pippola Music/Audioglobe]. Diverse esperienze nei migliori studi di registrazione, seguiti da produttori esecutivi che finanziavano i costi di produzione, ma, racconta Titano, leader della band: “Il dramma di questo modo di lavorare è venuto fuori nel momento in cui i soldi sono cominciati a scarseggiare: costretti a fare tutto di corsa per stare dentro a budget sempre più ridotti, siamo arrivati alla consapevolezza quasi obbligata di fare tutto da soli. Abbiamo creato il nostro micro-studio in una casa sperduta nell’appennino: dopo l’investimento iniziale ci saremmo risparmiati dei gran soldi nei dischi futuri e avremmo potuto lavorare con i nostri tempi, dimenticando l’ansia da prestazione e da conto rosso in banca. E così è stato.”
Dedizione e coerenza sono anche le carte vincenti degli Altre di B, band bolognese nata nel 2006. Due dischi all’attivo: ”There’s a million better bands”, esordio ufficiale del 2011, e “Sport”, pubblicato in aprile 2014, entrambi rigorosamente autoprodotti. Migliaia di km percorsi tra l’Italia e l’Europa, fino ad arrivare negli Stati Uniti per un mini tour tra New York e Atlantic City. “Abbiamo imparato a far buon viso a cattiva sorte” scrivono nella loro biografia, e Giacomo, il cantante, ci spiega perché: “Il nostro problema è che cantiamo in inglese e in Italia tutti vorrebbero che cantassimo nella nostra lingua, ma ci sentiremmo snaturati. Noi puntiamo al mercato estero. Stiamo organizzando un altro tour negli States, ci piace esportare la nostra musica. Finchè in Italia non ci sarà qualcuno ad accettarci così come siamo, la nostra scelta è e continuerà ad essere la completa autonomia”.
Ma quali caratteristiche deve possedere un disco autoprodotto perché un’etichetta decida di curarne la pubblicazione? “Requisito necessario è che il progetto ci sembri di qualità ed a fuoco, in quanto a contenuti e suoni.” Spiega Marco Notari, label manager di Libellula Music: ”In seconda battuta è molto importante che la qualità della registrazione, mix e mastering sia buona, visto che ci occupiamo anche e prevalentemente di ufficio stampa e sappiamo quanto sia importante per i media oltre che più o meno consciamente per il pubblico”.
Per Matteo Romagnoli, fondatore di Garrincha, giovane ma già conosciutissima etichetta bolognese: “Al di là del veder qualcosa di originale nella scrittura di un artista piuttosto che la possibilità di arrivare ad un pubblico ampio, penso che la dote più importante sia la determinazione che associata ad una propria visione del mondo può rendere un progetto interessante per una realtà come la nostra.” Diverso è l’approccio di Trovarobato, storica etichetta, anch’essa bolognese, che nasce proprio dall’esperienza di autoproduzione e autopromozione dei Mariposa: “Rimaniamo sempre affascinati dai dischi imprevedibili, quelli che in qualche modo sono messi assieme senza conoscere bene la formula” racconta Gianluca Giusti: “Spesso ci capita di dare cittadinanza a casi unici, casi rari, a foolish shakespeariani, ma a noi piace così”. Sembra dunque che missione comune sia quella di riconoscere nella crisi un’opportunità di evoluzione: e gli artisti emergenti degli anni zero, in questo senso, hanno tanto da insegnare. Chapeau.