La Cina e Hong Kong faranno parte degli oltre ottanta Paesi in procinto di firmare un accordo per la fine del segreto bancario. I promotori – tra cui spicca il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble – sperano che il patto sia una pietra miliare nella guerra globale contro l’evasione fiscale. Un totale di 51 nazioni hanno finora sottoscritto il Multilateral Competent Authority Agreement, voluto soprattutto dalle maggiori economie dell’OCSE. In base all’accordo, le autorità fiscali nazionali si scambieranno informazioni a partire dal settembre 2017. I primi firmatari sono i Paesi Ue e alcuni ex paradisi fiscali, come il Liechtenstein e le Isole Cayman. Altri 30 hanno detto che aderiranno un anno più tardi, nel 2018. Tra questi, Cina e Hong Kong, oltre a Svizzera, Canada, Brasile, Principato di Monaco e Russia.
Perché la Cina vi aderisce? Perché la natura della sua economia si è ribaltata. Se all’inizio delle riforme e aperture di Deng Xiaoping, trent’anni fa, lo scopo era quello di attirare capitali per avviare il gigantesco motore della futura “fabbrica del mondo” – si calcola che gli investimenti stranieri abbiano contato per un buon 70 per cento in questo processo – oggi la priorità è un’altra: arrestare l’emorragia di liquidità che il nuovo ceto medio cinese, dai funzionari in odore di corruzione ai semplici “urban dwellers” con il gruzzoletto, piazza all’estero. Finora, le misure messe in atto dalle autorità sembrano un po’ la classica chiusura della stalla quando i buoi sono già scappati. C’è l’enorme campagna anticorruzione lanciata due anni fa dall’attuale leadership, non a caso la prima misura in assoluto decisa dal nuovo corso. Al suo interno, si susseguono le misure specifiche.
Dal primo gennaio scorso, esiste una normativa chiamata Foreign Asset Reporting Requirements (FARRs), che costringe i cittadini della Repubblica Popolare a rendere pubblici i dettagli dei propri averi all’estero. A fine settembre, la Suprema Procura del Popolo ha poi lanciato una campagna di sei mesi contro “i fuggitivi sospetti di corruzione e altri reati” (Xinhua) dai contorni non molto chiari, ma che in buona sostanza dovrebbe incentivare il rientro “spontaneo” di chi prende i soldi e scappa, minacciando il blocco di tutti i suoi beni rimasti in patria. Non si capisce bene, però, se queste misure possano limitare o, invece, accentuare, fenomeni di evasione come quello dei “funzionari nudi”: pubblici ufficiali che restano in Cina a lavorare diligentemente e frugalmente (da qui l’immagine di casta “nudità”), mentre trasferiscono all’estero non solo i patrimoni, ma anche moglie e figli, magari in qualche college britannico o beauty-farm svizzera. In attesa di prendere il volo pure loro.
La ratifica del Multilateral Competent Authority Agreement dovrebbe quindi ridurre i posti dove gli evasori possono nascondere i propri soldi e la nuova Cina vi aderisce volentieri, ma con la consueta precauzione: vediamo se funziona, poi magari, nel 2018, la applichiamo pure noi. Tuttavia, qualche scappatoia esiste sempre: Panama e Singapore, per esempio, non hanno ancora aderito all’accordo. C’è poi un problema di tempi. Affinché lo scambio di informazioni parta nel 2017, le banche cominceranno a raccogliere dati – sui conti che superano i 250mila dollari Usa – a partire dal 2016: c’è tutto il tempo per spezzettare il proprio patrimonio in diversi “pacchetti” sparsi per il mondo. Non è inoltre chiaro come si affronterà il problema dei conti intestati a qualche prestanome. Pesa infine, almeno per ora, una totale assenza di standardizzazione. Ogni Paese potrà infatti decidere in piena autonomia e caso per caso quali informazioni scambiare. La Svizzera, per esempio, ha già precisato che consegnerà le informazioni solo ai Paesi ritenuti importanti per l’economia elvetica. Insomma, i ricchi evasori di economie “non interessanti” possono starsene tranquilli. Transfrontalieri con valigetta prendano nota.
di Gabriele Battaglia