Società

Crisi e teorie economiche: capitale, lavoro e cos’altro?

“Il nostro destino dipende molto più dalla saggezza che dalla conoscenza”: con queste parole, il padre della bioeconomia Nicholas Georgescu-Roegen (di cui giovedì ricorreva il ventennale della scomparsa e al cui ricordo è dedicato il workshop che ho organizzato in Umbria il 22 e 23 novembre prossimi) suggellava il valore di un innovativo impianto teorico che, concependo l’economia e i processi produttivi come semplici “applicazioni” di un quadro sistemico assai più vasto e olisticamente fondato sulle leggi della biologia e della fisica, avrebbe molto da insegnare anche ai policy-makers contemporanei.

Per quello che potrebbe a tutti gli effetti essere considerato come il Galileo Galilei del XX secolo, il processo economico doveva avere come finalità ultima il benessere delle persone, svincolandosi da quell’impianto dottrinario che, abilmente veicolato da alquanto sospette “mani invisibili”, si è sempre e soltanto fondato sul concetto – volutamente equivoco – di “utilità”.

Per tutti gli economisti classici e neoclassici (comprese le oggi tanto di moda correnti neokeynesiane), la soddisfazione delle persone deve infatti necessariamente transitare per l’incremento ininterrotto di un paniere di beni che per forza siano fisici, tangibili o quantomeno monetizzabili: il parametro da massimizzare è, cioè, l’utilità monetaria o, se preferite, il valore di scambio.

A nulla servirono le teorie (in parziale controtendenza) di un economista illuminato come Mill, il quale – sostenendo come fosse “meglio essere un Socrate insoddisfatto, piuttosto che un maiale soddisfatto” – non riuscì ovviamente ad arginare la straripante forza d’urto di un modello socioeconomico fondato sull’accumulo ad ogni costo. Un modello perverso nel quale, come una gigantesca sabbia mobile, siamo ancora oggi impantanati fino al mento (sia fisicamente che, ancor peggio, psicologicamente).

E a nulla servono gli allarmi dell’overshoot-day (che ogni anno si avvicina, denunciando un sempre più insostenibile bilancio ecologico con il nostro habitat), o le puntuali minacce sul surriscaldamento globale (le emissioni di gas serra sono ormai prossime al punto di non ritorno), o la sempre più dilagante crisi economica (che dovrebbe almeno indurre un riposizionamento sostanziale dei nostri valori). No, non serve a niente…

L’importante è ostinarsi a celebrare le code notturne davanti a uno store per l’acquisto di uno smart-phone, o invocare sempre più globalizzazione mediante la ricerca forsennata di nuovi mercati all’estero (salvo poi indignarci se i salari nostrani s’inabissano), o alimentare il sogno di un futuro più florido del presente, affibbiando l’etichetta di “gufo” a chi invece, con molta umiltà, cerca solo di fare luce sulle responsabilità intergenerazionali delle persone che popolano il presente.

Lo so, non fa piacere. Ma stiamo entrando con entrambi i piedi in un futuro assai diverso da quello con cui ci illudono i nostri politici, e in cui le grandezze che saranno in grado di garantirci benessere saranno non solamente monetarie. Prima lo capiremo e meglio sarà per tutti.

L’impero della dismisura è miseramente franato sotto i colpi di un consumismo sempre più vorace e socialmente irresponsabile, che molti di noi hanno colpevolmente difeso e alimentato. Tutto sommato, abbiamo preferito continuare a cullarci con le appendici ideologiche dei due mostri sacri del secolo scorso: il Capitalismo, che per la mentalità neoclassica stabiliva la predominanza di uno dei due soli fattori produttivi contemplati, e il Socialismo Reale, che prediligeva invece la tutela dell’altro fattore. Nessuno ha mai invece considerato che il più grande inganno degli economisti classici è stato proprio quello di farci credere che i fattori di produzione siano due soltanto: il capitale e il lavoro.

E se esistesse un terzo fattore? Oggi più che mai occorre riscoprire il valore generativo del pensiero laterale di quei pensatori che, animati dal coraggio dell’eterodossia, sanno proporre e argomentare un paradigma realmente alternativo alla cultura unica dominante, da sempre fondata sul profitto, sull’accumulo incondizionato e sullo spreco di risorse.

Chi lo capirà in anticipo, potrà forse salvarsi. Tutti gli altri potranno al massimo sfilare in una piazza o riunirsi all’interno di stazioni ferroviarie abbandonate.

(Low Living High Thinking)