Sfruttano il dolore dei lavoratori per attaccarci“, dice Renzi dei sindacati. Verrebbe voglia di tapparsi le orecchie e andare avanti. Ma conviene soffermarsi su questa accusa di strumentalità rivolta ai “rappresentanti dei lavoratori”, tralasciando in questa sede quanto i sindacati (non) hanno fatto in questi anni, riducendo troppo spesso la propria attività a un esercizio di concertazione e patronato, e non interpretando i mutamenti nel mercato del lavoro. Lo si può tralasciare perché questa frase espone mirabilmente la concezione del potere di chi l’ha pronunciata.

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Una gestione della cosa pubblica come lotta di poteri autoreferenziali – di élites, per dirla con Pareto – e nient’altro: ogni dimensione propriamente rappresentativa è cancellata, non resta che la finzione (è chiaro che qui vengono esposti i limiti stessi della democrazia rappresentativa: essendo ogni rappresentazione, in ultima analisi, finzione). E dunque, un rapporto con i cittadini come massa indistinta e passiva, animale dotato di sentimenti primordiali da usare come elementi di consenso/vendita entro una politica ridotta a marketing.

Non è dato che qualcuno rivendichi portando la parola “attiva” di una comunità: non c’è che un rapporto tra una élites e una massa afasica e informe – a cui le parole, semmai, vanno assegnate, come alla Leopolda. Non si ascoltano i cittadini che parlano se non ingabbiati entro le griglie dei sondaggi, non esistono più i corpi intermedi, e se non esistono con loro non si può trattare. Esistono solo un leader, il suo staff, e una platea.
Insomma: Renzi, qui, ci dice fuori dai denti di essere e sentirsi uno sfruttatore della credulità popolare.

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