Di una persona posso ammirare il suo rapporto con la malattia. Per quest’ultima, viceversa, non provo nulla. Per una malattia che attanaglia la fisicità di un corpo posso tutt’al più avere commiserazione, oppure odio profondo. Non credo affatto a quella figura retorica che trasla l’essere di un malato nella propria patologia e ne fa un tutt’uno, tanto da arrivare a concetti quali quello della convivenza essere umano-malattia o a dialoghi assurdi tra i due, come fosse possibile discutere con un morbo o confrontarsi con un tumore.
Invece ho quasi una venerazione per chi combatte, e ammiro ogni espressione del rapporto, certamente conflittuale, tra una donna o un uomo e le sue problematiche di salute. È questo che è da rispettare! È la malattia in quanto motivo di cambiamento del modo di pensare, delle abitudini e dell’esistere di una persona, che fa umanità e quindi argomento da “prendere in considerazione”, elemento di contemplazione, di studio.
In tutto questo c’è poi l’emozionalità dell“essere malato”, il messaggio rivolto ad altri esseri umani, sull’ontologia della condizione trascendente della carne, sul significato ultimo dell’esistere, sulla condizione vera dell’essere al mondo e, quindi, sul senso della vita. Nella malattia c’è questo e molto altro, per cui al malato va riconosciuta l’opportunità di compiere delle scelte approfondite.
Negli Stati uniti il primo novembre scorso Brittany Maynard, una ragazza di 29 anni appena, malata di un tumore incurabile al cervello, ha deciso di togliersi la vita prima che la malattia ne azzerasse la coscienza e le sottraesse la lucidità necessaria per apprezzare quello che la circondava: il suo rapporto amoroso col fidanzato e l’affetto della famiglia, per esempio. Brittany ha optato per l’eutanasia perché profondamente innamorata della vita e non disposta a venire a patti con qualcosa che potesse mettere in discussione tutto questo.
Io invito chiunque si senta di criticare la scelta di Brittany a sospendere il giudizio ed evitare di interpretare quel gesto attraverso la lente della propria morale, delle proprie tradizionali convinzioni o peggio ancora attraverso la lente della religione. Brittany ha scelto semplicemente guardando dritta in faccia la sua malattia.
Era suo diritto fare tutto questo? Certamente! E non solo perché la legge americana evidentemente glielo permetteva, ma perché alcuni diritti è giusto che vadano oltre l’etica di chi certe scelte non può comprenderle, di chi è impegnato in altre battaglie, di chi è sano!
La scelta di Brittany è stata una scelta coraggiosa ma per certi versi ovvia, che dovrebbe essere ad appannaggio di tutti. Ecco perché sostengo da anni la battaglia per il “testamento biologico” anche in Italia e mi auguro che l’esempio di Brittany aiuti anche il nostro Paese a guardare oltre lo steccato.
E intanto mi commuovo e al tempo stesso rimango ammirata guardando a Che tempo che fa Anna Marchesini, la grande attrice comica affetta da una grave forma di “artrite reumatoide” che la rallenta nei movimenti e nella parlata, ma che non le ha minimamente intaccato quella voglia di fare e quell’entusiasmo che da sempre l’hanno caratterizzata.
Rimango commossa ed ammirata per quello che ha detto: “Una volta una lettrice mi disse ‘certo tu hai capito tutto della vita; hai capito che si sta in vita proprio per obbedire alle necessità della vita…’. Beh in effetti io questo l’ho scritto, ma non lo penso! Perché non ho ancora ben capito perché si sta in vita. Però ci sto!”.
Grandissima Anna, nel racconto di un aneddoto ha espresso nel miglior modo possibile il senso di un ostinato stare in piedi, anche in mezzo alle mille difficoltà che ti prospetta la malattia.
L’esempio di Anna e quello di Brittany sono due opposti? Forse no, perché rappresentano entrambi un incondizionato e assoluto amore per la vita. Questo le accomuna, mentre le separa l’essere affette da due malattie differenti e l’aver preso, necessariamente, strade divergenti. Ma questo deve essere un loro diritto, un diritto sancito dalle proprie specificità e che un testamento biologico potrebbe legittimare anche agli occhi del mondo e della giustizia. Tutte cose che però, in fondo in fondo, hanno poca importanza.