Che la cenere debba ricadere su molte teste, lo dimostra il comunicato di Magistratura Democratica, che stigmatizza le forze dell’ordine (tutte, non solo la penitenziaria, unica formalmente incriminata e poi assolta) per non avere saputo “collaborare lealmente nell’accertamento della verità” ma anche il sistema giudiziario che non è riuscito a “infondere” in Stefano la “fiducia” necessaria a denunciare durante l’udienza di convalida chi “aveva attentato alla sua integrità fisica”.
Ne è convinto Vittorio Ferraresi, capogruppo 5 Stelle in commissione giustizia alla Camera quando ci dice che la sentenza d’appello lascia l’amaro in bocca sia per il disorientamento di scoprire che “una persona entra sana nelle mani dello Stato ed esce in una bara” sia per la sconfitta di “non poter accertare i colpevoli dopo cinque anni di processo”. Analizzando la sola vicenda processuale, Ferraresi individua una serie di criticità puntuali, su cui è bene riflettere. La prima, e forse la più importante, la madre di tutte le successive trappole giuridiche: “Il capo di imputazione scelto all’inizio, l’impianto accusatorio iniziale, era debole. Si è scelto di contestare lesioni agli agenti della polizia penitenziaria, con questo negando il rapporto di causalità tra le botte e la morte”.
La seconda criticità, per dirla con Ferraresi, riguarda le perizie medico legali: “L’assoluzione per insufficienza di prove è una diretta conseguenza di un dubbio probatorio non sciolto dalla perizia, a cui nel processo fece da contraltare la consulenza della famiglia. In appello, il presidente della corte avrebbe dovuto chiedere un nuovo parere, e cioè una nuova perizia che poteva sciogliere i dubbi”. Ma non l’ha fatto. Terzo ma non ultimo, Ferraresi si domanda – con una certa perplessità sulla reale efficacia delle buone intenzioni dichiarate dal procuratore di Roma, Pignatone – “se a questo punto si possono davvero aprire nuove indagini e perché se ne parla solo ora e non al momento in cui sarebbe stato decisivo”. Infine, invita i sindacati delle forze dell’ordine a ricordarsi che “i loro iscritti sono sottoposti alla legge come tutti gli altri cittadini, le contrapposizioni non sono accettabili, la tutela dei diritti dei poliziotti non può mai trascendere in attacchi personali ai familiari delle vittime”. Oltretutto, conclude, “è stato più volte sottolineato che in questo tipo di processi le famiglie incontrano notevoli ostacoli nell’accertamento della verità rispetto ad altri casi, quando invece ci dovrebbe essere la massima collaborazione di tutti”.
Qui, l’unico fatto accertato è che Stefano Cucchi fu pestato a sangue mentre era nella custodia dello Stato. Non lo nega nemmeno il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani. Non lo nega nessuno, ma quando si tratta di stabilire chi lo ha ridotto in quelle condizioni, i giudici si contraddicono o contraddicono la pubblica accusa. Queste poche righe dalla sentenza di primo grado, vi dimostrano che non c’è accordo sull’individuazione delle responsabilità: la corte d’Assise riteneva che bisognasse cercare anche fra i carabinieri. Poche settimane fa, la pubblica accusa d’appello, ha sostenuto il contrario: la colpa sarebbe stata della polizia penitenziaria “dopo l’udienza in tribunale” (un buon modo per eliminare ogni ombra su quanto sarebbe successo a pochi passi dai giudici stessi). Così, non si arriverà mai a nulla, tantomeno alla verità.