Un segreto di Stato ha fottuto la vita a un uomo. Lo ha torturato per fargli sputare una falsa verità. Lo ha trasformato in un capro espiatorio. Lo ha costretto a vivere per trentasei anni con il marchio del mostro e per ventidue in una cella. Giuseppe Gulotta ne aveva diciotto quando è stato macellato per proteggere qualcosa di indicibile, una strage di carabinieri in Sicilia ad Alcamo Marina in provincia di Trapani. Oggi ne ha cinquantasette. (La storia è raccontata nel libro “Alkamar”, di N. Biondo e G. Gulotta, acquistabile nella versione e-book per tutta la giornata del 5 novembre, a 2,99 euro anziché a 9,99). Il 5 novembre lo Stato che lo ha prima condannato e 36 anni dopo assolto proverà a guardarlo in faccia, per valutare – se è possibile – quanto vale una vita triturata da un segreto di Stato. Giuseppe ha bevuto la cicuta che la giustizia italiana gli ha imposto, non è scappato all’estero, ha aspettato una vita per ritornare a vivere. È la storia perfetta per un noir. Una scena del delitto contraffatta, i falsi colpevoli da dare in pasto all’opinione pubblica, il movente che deve rimanere nascosto. Da semplice muratore di provincia è diventato una delle tante vittime della lunga trattativa tra Stato e poteri criminali, mafia ed eversione.

GENNAIO 1976. Due carabinieri vengono uccisi in una caserma chiamata Alkamar. Dopo settimane di inutili rastrellamenti – in cui finisce anche Peppino Impastato – un ragazzo con evidenti problemi psichici viene fermato con una pistola. La Sicilia diventa così Guantanamo. Un branco di lupi in divisa capitanato dal colonnello Giuseppe Russo fa vomitare fuori – con pestaggi, minacce, finte esecuzioni, scariche elettriche ai testicoli, acqua e sale in gola, – la verità sulla strage a quattro ragazzini, di cui due minorenni, e tra questi Gulotta. Caso chiuso. Un anno dopo Russo viene ucciso da Cosa nostra e diventa un’icona dell’antimafia. Anche qui la verità, come quella su Alkamar, non deve essere svelata. La sua squadra, la stessa di Alcamo, ripete lo scempio: a finire dentro, dopo indicibili sevizie, sono tre pastori analfabeti. Sedici anni dopo saranno dichiarati innocenti. Perché?

ALKAMAR – il segreto di Stato che fotte Gulotta e altri tre innocenti – è una terra di confine, incredibile voragine in cui le divise di mafia e Stato, di buoni e cattivi, diventano irriconoscibili. Intorno a essa muoiono giornalisti come Mario Francese – che prova a ricostruire non solo gli affari dei corleonesi ma anche gli aspetti più controversi della figura di Russo – come Rostagno alla ricerca dei segreti di Stato in terra trapanese e muore Impastato. Alkamar ricostruisce la storia di un manipolo in divisa che in nome dello Stato falcia chiunque osi avvicinarsi ai confini tra mafia e Stato. Sono le gesta di Russo – torturatore di ragazzini e secondo svariate testimonianze mai smentite in rapporti con gli esattori mafiosi Salvo e con il boss di Cinisi Badalamenti, usati come confidenti – quelle del suo fido maresciallo Scibilia, autore delle torture di Alcamo, finito poi nel Ros che tratta con Vito Ciancimino. Quelle di Antonio Subranni il successore di Russo oggi sotto processo per la trattativa con i boss nell’estate del ’92 che definì Impastato “terrorista”. Alkamar ha inghiottito vite e verità. Nemmeno la disclosure voluta da Renzi sui documenti dei Servizi riesce a bucare quel segreto. La Cassazione ha stabilito che i processi agli innocenti di Alkamar sono stati viziati non da un errore giudiziario ma da una frode processuale. I carabinieri hanno inventato prove, ne hanno nascoste altre, e i giudici ci sono cascati. Cosa dovevano proteggere? Alcuni dei torturatori sono ancora vivi e impuniti: in Italia è possibile senza i reati di depistaggio e tortura. Oggi Gulotta, vittima dei metodi mafiosi di uomini di Stato, aspetta l’ennesimo verdetto della sua vita. Lo fa in silenzio. Come il silenzio che le istituzioni gli hanno riservato dopo l’assoluzione e 22 anni di carcere da innocente. Nessuno lo ha mai chiamato, nessuno gli ha mai chiesto scusa. Nessuno è Stato. Amen.

Nicola Biondo
da “il Fatto Quotidiano” del 2 novembre 2014

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