In un precedente post (per i commenti al quale ringrazio tutti coloro che hanno espresso la loro opinione), ho già ricordato i vantaggi che esprimersi per asserzioni offre a tutti coloro il cui obbiettivo è produrre consenso (non solo i politici: pensate p.e. ai pubblicitari). Le asserzioni sono comunicazione allo stato puro; schematiche, dirette, danno per scontata la verità dei contenuti che trasmettono, si rivolgono molto di più alla sfera emotiva che a quella razionale dell’ascoltatore: e catturano l’attenzione, creano un “noi” che si oppone a un “loro” e dunque indicano una missione e offrono un’identità. E’ una tecnica comunicativa che ha una lunga e gloriosa storia: per citare solo due esempi ben noti, fu usata anche da Pericle in Atene, nel V secolo a.C. e da Cicerone a Roma nel I° secolo a. C.
Ai giorni nostri dilaga e invade tutti gli spazi comunicativi, non solo quelli pubblici tradizionalmente ad essa riservati: p.es. la formula dell’enunciato cui non segue una spiegazione, perché si ritiene che il senso dell’enunciato sia autoevidente, è ormai frequente nei testi scolastici, specie quelli per le scuole medie inferiori. Possiamo fare diverse ipotesi per spiegare questo fenomeno così generale. In una società di massa capitalista, dove la mobilità ha investito tutti le classi sociali spesso obbligandole a convivere a distanza ravvicinata, e la velocità è una virtù perché time is money , uno stile comunicativo essenziale, diretto, elementare è indispensabile.
In Italia lo abbiamo importato dagli Usa, spesso come traduzione di formule dall’angloamericano, idioma che storicamente si è venuto formando/semplificando rispetto all’inglese british per permettere agli immigrati italiani di comunicare con i tedeschi, ai greci con gli irlandesi, ai pakistani con i cinesi e via mescolando. Un esempio è l’espressione okay, di cui nessuno saprebbe più dire da quali vocaboli originari deriva: ma l’uso è universale e il significato, estremamente generico, è quello di una positività che può riguardare qualunque cosa. Il lavoro che faccio, l’uomo che ho sposato, il mio rapporto con il capo, il taglio di capelli che mi fa il parrucchiere Antonio, il modo in cui servono l’aperitivo nel bar all’angolo, il vino rosso con gli arrosti, l’insegnante di mio figlio e il Presidente degli Usa. Magari pure papa Francesco.
Dunque l’assertività avrebbe conquistato tanto spazio perché non è solo efficace per persuadere, ma è funzionale per comunicare nelle società complesse. Tanto più, poi, quando la comunicazione è diventata a distanza, prima con il telegrafo e il telefono, nell’uso dei quali davvero time is money; e poi radio, cinema, televisione e la rete, tutti mezzi che impongono la concisione, fino a quella estrema dei 140 caratteri, non solo perché gli spazi- tempi costano, ma perché strutturalmente questi mezzi di comunicazione funzionano solo se il messaggio è breve e diretto.
Semplificando molto, possiamo ricostruire così le ragioni che hanno decretato il trionfo dell’asserzione e l’adattamento e l’assuefazione di noi tutti a questo stile comunicativo. Per il bene o per il male?
Personalmente, per età, per formazione, per lavoro, per abitudine, ovviamente preferisco di gran lunga l’argomentazione; oserei aggiungere perché nell’impegno ad argomentare i propri enunciati, vedo anche un’implicazione morale. Ma non voglio e non posso affermare che l’argomentazione sia di per sé, sempre e dovunque, uno stile comunicativo superiore a quello basato sull’asserzione.
E tuttavia….L’argomentazione per persuadere deve essere logica e conseguenziale, deve svolgere i propri argomenti e mostrarne la validità, deve e può ‘confessare’ i propri fini. Induce a riflettere, a sviluppare la logica discorsiva, ad ascoltare gli argomenti dell’interlocutore, se non altro per ribattere ad essi in maniera pertinente. O per accettare consapevolmente di farli propri. Insomma, per argomentare bisogna ragionare.
Proprio per questo obbligo a ragionare l’argomentazione mi piace…peccato che è proprio fuori moda, è una cosa da gufi.