A porte chiuse i lavori sul "diritto del mare" al di là delle acque territoriali. Obiettivo: petrolio, gas e minerali sottomarini. E lo scioglimento dei ghiacci riapre la corsa al Polo nord
Porte chiuse e massimo riserbo. A New York, i lavori della terza sessione annuale della commissione Onu sulla divisione degli oceani e sul diritto del mare procedono protetti dal silenzio, ma qui si gioca una partita a Risiko che è destinata a decidere il futuro economico e strategico globale. Davanti a un’assemblea composta da 21 scienziati, i Paesi vengono ad affermare i loro diritti su ciò che chiamano “estensione della piattaforma continentale”. Il concetto, che sembra l’innocuo oggetto di una tesi di Geologia, nasconde in realtà la corsa all’accaparramento delle risorse petrolifere, minerarie e biologiche sottomarine.
Ogni paese costiero dispone, oltre le acque territoriali, di una zona economica esclusiva (Zee). Su quest’area, che si estende per circa 200 miglia (370 km) dalla costa, vige la sovranità sulle risorse disponibili. Meglio ancora: in virtù della Convenzione sul diritto del Mare di Montego Bay, questo vale fino a 350 miglia (648 km). A due condizioni: non entrare in conflitto con un Paese vicino e provare che esiste una continuità geologica tra i territori. I nuovi confini subacquei si disegnano a colpi di rilievi sottomarini e perizie costosissime, il prezzo da pagare per assicurarsi il proprio spicchio di Eldorado minerario.
La posta in gioco è la ricchezza potenziale: Russia, Canada e Danimarca si stanno contendendo a colpi di dossier sul tavolo della Commissione Onu, parti di suolo del Polo Nord. Chi dimostra che la dorsale di Lomosonov è collegata alla propria placca geologica, mette le mani sull’enorme giacimento di petrolio e gas che c’è sotto. Mosca ci ha aveva piazzato la propria bandierina oltre 5 anni fa, ma la contesa è tuttora aperta e osservata da vicino anche dalla Cina. Pechino ha contributo a finanziare il progetto di cartografia dei fondali lanciato agli inizi del 2000 dall’Islanda, nell’ottica strategica di costruirci un suo porto.
Il riscaldamento climatico che compromette l’ecosistema, provoca disastri ambientali e accelera la scomparsa dei ghiacci del Polo Nord, stuzzica al contempo gli appetiti di potenze grandi e piccole, rendendo la regione artica tra le più calde del panorama geopolitico. Oltre ai giacimenti di idrocarburi i suoli custodiscono miniere di uranio e metalli preziosi per l’utilizzo in tecnologia. Se il ghiaccio scompare queste miniere diventano più accessibili, si aprono anche nuove vie navigabili su rotte finora sbarrate. Scorciatoie tra le coste del Pacifico e l’Europa: Mosca, Washington e Pechino sgomitano, ma c’è anche Ottawa.
Il Canada non intende mollare un solo centimetro dei propri fondali al Polo, e avanza in un progetto di rivendicazione geopolitica con un programma articolato: mappatura sottomarina, basi militari, piattaforme di studio nei luoghi più proibitivi della regione. A Ottawa è nato nel 1996 il Consiglio Artico ne fanno parte tra i “membri permanenti” Usa, Russia, Canada, Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca, Islanda. Doveva servire come organo di coordinamento, ma vista la piega che stanno prendendo i famelici interessi sulla regione, si avvia a diventare un vero e proprio consesso politico, in grado di scalzare la commissione Onu al lavoro a New York, battendola sul tempo.
A maggio dell’anno scorso ha suscitato molto clamore l’accettazione tra i “membri osservatori” del Consiglio Artico, di giganti come India e Cina, accanto a Giappone, Corea del Sud, Singapore, Unione europea e Italia. Ne facevano già parte Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Olanda e Polonia. Tutti vogliono sedersi a quel tavolo per decidere nello scacchiere che si va profilando. Mosca intanto ha già fatto un’altra mossa: entro il 2015 posizionerà un nuovo comando militare strategico per proteggere le rotte mercantili e le compagnie di trivellazione. E intanto il ghiaccio si scioglie.