Chissà cosa avrà pensato papa Francesco di fronte alla dichiarazione del Presidente della pontificia accademia per la Vita, monsignor Carrasco de Paula, a commento del suicidio della giovane Brittany Mayard, avvenuto lo scorso 1 novembre. Con tutta probabilità, avrà provato irritazione e, chissà, persino sconcerto si fronte a una modalità che non appartiene al suo stile di pontificato: usare la teologia morale con una spada calata dall’alto, senza misericordia, senza pietà.
Certo non si può pretendere che la Chiesa cattolica rilasci una dichiarazione favorevole al suicidio assistito. Ma un conto è promuovere una cultura, e una teologia, della speranza, un conto far sentire la vicinanza della Chiesa ai malati, agli agonizzanti, a chi si trova in condizioni di disperazione e angoscia. Un conto decidere di intervenire sul singolo caso di una giovane donna malata di un tumore in fase terminale. Arrivando a dire che la sua è una scelta che non ha nulla di degno, anzi è da condannare, in quanto espressione di una “cultura dello scarto” che favorirebbe una società “che non vuole pagare i costi della malattia”.
Nel paese che ha visto parte del mondo politico, oltre che cattolico, schierarsi contro la scelta di Piergiorgio Welby, nel paese che ha strumentalizzato il corpo di una giovane donna in stato vegetativo, Eluana Englaro, nel paese dove è impossibile parlare di eutanasia – una parole che in sé dovrebbe essere persino neutra, “dolce morte”, morte senza sofferenza, qualcosa di sensato e ovvio, quasi scontato -, le esternazioni di monsignor Carrasco de Paula rischiano solo di alimentare ulteriori strumentalizzazioni, rallentando e impedendo un dibattito pubblico sul tema che sarebbe quanto mai urgente, per evitare l’ultimo scempio: quello di chi è costretto, il ricordo va a Lucio Magri, addirittura a morire apolide, fuori dal luogo dov’è nato.
Molti commentatori – vedi Marzano oggi su Repubblica – criticano la mediatizzazione del caso, provano a difendere la scelta di Brittany parlando però di distorsioni mediatiche. Ma, oltre al fatto che decidere di fare della propria vita, e anzi addirittura della morte, un atto pubblico (con gli strumenti che oggi rendono pubbliche le azioni, cioè soprattutto il web), è un atto che – al di là di ragioni psicologiche private che non nessuno ha il diritto di commentare – esprime comunque una generosità estrema, perché rende una morte “utile” per una causa collettiva; oltre appunto a questo, mettersi di fronte a questa morte con atteggiamento degno significherebbe, oltre a tacere, ammettere tutta l’angoscia che ci provoca (quella che privatamente e collettivamente cerchiamo di aggirare lasciando che i drammi si consumino in stanze d’ospedale con familiari, medici e pazienti costretti a prendere decisioni spesso impossibili, e talvolta, silenziosamente, contro norme che spesso risultano inapplicabili).
Sì, una giovane bella e appena sposata può ammalarsi di cancro; sì, questo fatto può rendere la prosecuzione della vita talmente impossibile che l’unico atto possibile – una scelta-non scelta – è quello di morire; sì, chi si trova in una condizione esistenziale talmente atroce, voler vivere ma essere costretta a morire, meriterebbe di vivere in una una società che almeno gli consenta di poter compiere l’unico atto possibile. Perché la decisione dell’eutanasia, per chi la compie, non ha più nulla di ideologico. E nessuno sarà mai spinto a morire solo perché esiste una norma legislativa che consenta il suicidio assistito. La vera cultura dello scarto è altrove: come papa Francesco va ormai dicendo da mesi, soprattutto in una società dove crescono, anche a causa della crisi, miseria, povertà, violazione dei diritti fondamentali delle persone.