Il male, poiché possibile, è consustanziale a qualsiasi realtà. L’imperfezione della creatura precede il peccato: prima ancora di trasgredire la legge, la creatura è limitata. Uno sguardo manicheo si domanderebbe: «Salvare o condannare apoditticamente?». Una terza via, passando per il riconoscimento dell’imperfezione come singolarità vivente, è la comprensione esplorante le dinamiche del reale. Il contesto è la leibniziana teodicea, la giustificazione – attraverso una visione polifonica dell’universo – dell’operato di Dio rispetto alla sussistenza del male.
«I disordini sono finiti nell’ordine», afferma Leibniz, facendo anche leva sul concetto di vinculum substantiale, un legame che assicura un certo grado di unità ai corpi e alla materia. L’ontologico vinculum substantiale è, storicamente, il mito. Il mito è una visione del mondo, un modo per tenere uniti fatti contingenti in un continuum chiamato «storia», «tradizione». Ogni Weltanschauung è mito. Il mito del contemporaneo, secondo Pinchard, è il capitale, frutto avvelenato del regime della produzione, visione totalizzante che – anche se il plusvalore fosse disvalore – genera un senso. Come Leibniz scriveva una teodicea, l’uomo contemporaneo dovrebbe autoimporsi l’imperativo categorico di una mitodicea: una discussione sul mito.
La libertà permessa dalla metafisica del contingente è un appello a riconsiderare il capitale: se il vinculum substantiale non è una prigione dell’essere, perché il mito del capitale deve essere la gabbia del contemporaneo? Se persino l’ontologia è libertà, come può la storia non essere campo di emancipazione e cambiamento?