Cultura

Vasco Rossi e la retorica: ‘Sono innocente’…perché perdonarsi funziona

C’ero cascato. Mi sembrava che ‘Come vorrei‘, il singolo che ha anticipato l’uscita di ‘Sono innocente‘ lo scorso 4 novembre, potesse presagire il disco di un Vasco Rossi tornato a descrivere il proprio tempo con una bentornata ispirazione.
E invece, se si escludono brani pervasi dal disincanto, come ‘Dannate nuvole’, ‘Quante volte’, ‘Il blues della chitarra sola’ e forse appunto ‘Come vorrei’ – almeno nelle intenzioni del video –, tra brani nuovi e riciclati, ‘Sono innocente’ contiene quasi totalmente canzoni che sarebbero state riempitive nei dischi del primo Vasco. È in pratica un disco di riempitivi venuti maluccio.

Probabilmente il motivo sta nel fatto che oggi a Vasco vengono bene solo i pezzi pieni di disillusione; gli altri, quelli più ironici, quelli più accusatori, quelli in cui gioca ancora ad andare controcorrente, non gli stanno più addosso. Insomma, c’è un ricchissimo sessantenne che ha vinto praticamente tutto, che non solo ha descritto il suo tempo ma l’ha anche trasformato e plasmato, che se la prende con chi gli rinfaccia alcuni errori di gioventù: “Sparatemi ancora!”, canta Vasco in “Sono innocente ma…”.  La domanda è: “Vasco ma chi ti spara più? Hai numeri da capogiro; riempi stadi con ragazzini urlanti al Vangelo del Kom; hai tutta la stampa che conta dalla tua parte; nelle librerie e nelle biblioteche ci sono solo libri agiografici e che parlano di te meglio che di Rimbaud.
Chi ti spara, oggi, ancora, Vasco? Innocente lo sei, perché hai tutti i giudici dalla tua parte, puoi dire impettito “la polizia è roba mia” – come disse Biff Tannen nel “1985 alternativo” a Marty McFly –; o più semplicemente sei innocente perché nessuno ti accusa più, fattene una ragione”.

Calma però, riflettiamoci per bene, e riprendiamo in mano classici, lì qualche risposta senz’altro dobbiamo trovarla. C’è stato un giornalista e critico musicale che meglio di tutti ha scritto su Vasco Rossi in passato: Edmondo Berselli. Più di ogni altra cosa, Berselli esaltava di Vasco la consequenzialità tra il suo modo di essere, la sua rappresentazione mediatica e le canzoni che cantava. Ciò che gli altri giornalisti descrivevano in maniera azzardata e superficiale come “sintesi poetica”, per Berselli era la capacità pratica di spalmarsi nelle canzoni, senza dire, senza scrivere. Figuriamoci la poesia. Nei contenuti, il principale merito di Vasco per Berselli è perdonarsi e permettere ai fan di fare lo stesso. Bingo!

“Nella fisicità di Vasco si può trovare soprattutto il segno e la misura di chi sa perdonare i propri eccessi, ed è tollerante con se stesso. Sicché il suo pubblico, mentre lo adora e scandisce le canzoni a memoria, si sente implicitamente compreso: il ripetuto, anzi costante, perdono del signor Rossi al divo Vasco è in fondo il perdono, la misericordia e la compassione che ciascuno di noi può concedere anche ai propri peccati, non importa se più modesti, meno spettacolari, ovviamente più sfigati. Ecco, Vasco è così popolare perché non è un personaggio, è una persona che richiama irresistibilmente l’Italia profonda, la provincia, la normalità. Proprio così, la normalità. Lui, l’emblema stesso della trasgressione” [E. Berselli, Vasco, il ribelle filosofo che unisce l’ Italia col rock, in “la Repubblica”, 31 maggio 2008].

Ecco cosa ha capito perfettamente Vasco: fare la parte del prete che perdona ogni tipo di peccato funziona. E funziona alla grande! Il concerto è un rito, una messa in cui manca il “mea culpa”, per questo una figata! L’irresponsabilità – niente moralismo, parlo dell’attitudine a non rispondere per le conseguenze delle proprie azioni – è la chiave; la “gioia adolescente di restare indenni” per dirla con Max Manfredi.

Per questo, senza “mea culpa”, serviva un nome leggermente più trasgressivo e coinvolgente di Don Rossi; ecco da dove vien fuori il Kom: comandante di una messa che è un’orgia d’(auto)assoluzione immancabile e collettiva.

Artisticamente, però, convince poco, semplicemente perché se quest’immagine funzionava, e alla grande, quando se la inventò negli anni Ottanta, oggi viene solo ripetuta come una liturgia. Oggi diventa ripetizione di icona, di qualcosa che sai che funziona.

Niente arte, solo retorica, ciò che di peggiore possa succedere a un artista. È retorico perché in queste canzoni non c’è movimento, ma semplicemente ripetizioni dell’identico e manierismo. Se uno cerca l’arte, beh… la trova ancora in qualche sprazzo di disillusione, perché quello è l’unico argomento che autenticamente ancora appartiene al signor Rossi, vista l’età e la consapevolezza di vivere letteralmente fuori dal mondo e dai problemi quotidiani. Ma bisogna dispensarla a piccole dosi, perché ciò che conta è perdonarsi e, così facendo, convincere milioni di fan – in questa Italia in cui la colpa è sempre di qualcun altro – che sono tutti innocenti. Come il Kom.