Giorgio Napolitano era davvero pronto a concedere la grazia a Silvio Berlusconi dopo la condanna per frode fiscale dell’agosto del 2013. La conferma arriva dall’allora segretario politico del Pdl e attuale ministro dell’Interno Angelino Alfano, intervistato da Bruno Vespa per il nuovo libro del giornalista, Italiani Voltagabbana. Un brano del capitolo 11 è stato pubblicato dal Corriere della Sera e riguarda proprio i mesi di agosto e di settembre 2013, quelli che seguirono la condanna definitiva per il leader di quello che allora era ancora il Popolo delle Libertà e precedettero il voto del Senato che decretò la decadenza da senatore di Berlusconi.

Il provvedimento di grazia fu subito chiesto praticamente dall’intero centrodestra e il presidente della Repubblica rispose con una nota una decina di giorni dopo la sentenza definitiva della Cassazione: “Ad ogni domanda in tal senso – scrisse in una nota – tocca al presidente della Repubblica far corrispondere un esame obiettivo e rigoroso, sulla base dell’istruttoria condotta dal ministro della Giustizia, per verificare se emergano valutazioni e sussistano condizioni che senza toccare la sostanza e la legittimità della sentenza passata in giudicato, possono motivare un eventuale atto di clemenza individuale che incida sull’esecuzione della pena principale”. Dopo quel comunicato i retroscena dei giornali sull’eventuale grazia, più o meno probabile, si moltiplicarono.

A Vespa Berlusconi dice che le condizioni per la concessione della grazia poste dal Quirinale erano due: le dimissioni da senatore prima del voto in Senato e la rinuncia all’attività politica. Alfano esclude questo secondo aspetto, ma conferma il resto. “Nel settembre 2013 – dice il ministro al conduttore di Porta a Porta – chiesi un appuntamento al presidente della Repubblica e gli preannunciai al telefono che volevo parlargli della grazia”. L’incontro avvenne il 24 settembre, presente anche il segretario generale del Quirinale, Donato Marra. Alfano chiese innanzitutto la nomina a senatore a vita per Berlusconi. Per tre motivi, racconta: “E’ stato l’uomo più longevo alla guida del governo italiano, il più giovane cavaliere del lavoro e il presidente della società di calcio che ha vinto il maggior numero di titoli internazionali”. E d’altronde, ricorda Alfano, l’articolo 59 della Costituzione parla di “meriti sociali” del candidato. Napolitano ascolta “con grande serietà” e a quel punto “entriamo nel merito della grazia”.

Il presidente della Repubblica dice a Alfano quattro cose. La prima, forse la principale: se Berlusconi si dimette prima del voto sulla decadenza al Senato, lui è pronto a concedere il provvedimento di clemenza. Secondo: a quel punto il capo dello Stato sarebbe disponibile a riconsiderare un atto “unilaterale”, senza – cioè – aspettare un’eventuale richiesta da parte degli avvocati del Cavaliere. Terzo: il presidente della Repubblica è pronto, racconta Alfano, a far uscire un comunicato con cui precisa che la condanna è per un solo lato della vita pubblica di Berlusconi (cioè l’esperienza imprenditoriale) che invece “va valutata nel suo complesso”. Quarto e ultimo punto: è pronto a fare un appello per un provvedimento generale di amnistia e indulto (di appelli del genere il capo dello Stato ne ha fatti parecchi prima e dopo la condanna di Berlusconi).

“Ero entusiasta, ma Ghedini disse che quello che a me appariva un grande risultato in realtà era il nulla”

Alfano dice a Vespa che quel giorno uscì dal Palazzo del Quirinale “entusiasta”. Un’euforia spenta poco più tardi a Palazzo Grazioli, quando – dopo aver riferito tutto a Berlusconi – intervenne Niccolò Ghedini: il legale del Cavaliere “disse che di fatto la proposta di Napolitano equivaleva a far ritirare Berlusconi dalla politica e che quello che a me appariva un grande risultato in realtà era il nulla”. Così l’allora segretario politico del Pdl restò “delusissimo”, provò a dire che Berlusconi sarebbe comunque decaduto con il voto parlamentare per effetto della legge Severino. Ma neanche Gianni Letta intervenne. Il 27 novembre Berlusconi fu dichiarato decaduto dal presidente del Senato Piero Grasso.

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