Cedegolo è un piccolo paese quasi alla fine della Valcamonica. Pochi chilometri sotto, c’è Capo di Ponte dove i Camuni hanno inciso, per millenni, enormi massi di arenaria. Pochi chilometri sopra, il massiccio montuoso dell’Adamello sovrasta la valle come un’enorme e severa cattedrale gotica. E tuttavia, risalendo in macchina la statale, quello che più colpisce oggi di questo territorio non è il paesaggio, quanto i segni del lavoro e della fatica. Arrivare a Cedegolo significa infatti attraversare una delle terre più industrializzate dell’Italia del Nord: un paesaggio stravolto e congestionato se si resta vicino alla statale, ma di nuovo integro e quasi selvaggio se, con lo sguardo, si risale verso i monti.
Una buona ragione per spingersi fin quassù è quella di andare a visitare, all’interno del Museo dell’Energia Idroelettrica di Cedegolo, la mostra “ferro, terra, fuoco, legno” dedicata all’opera della scultrice Franca Ghitti e il museo che la ospita: un piccolo gioiello di archeologia industriale che merita da solo la visita. La struttura dell’edificio è quella di una ex centrale idroelettrica costruita tra il 1909 e il 1910 dall’ingegnere Egidio Dabbeni, e in disuso dal 1962. Nel 2008 è stata restaurata e riconvertita in museo dell’Energia Idroelettrica, parte del sistema Musil (Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia e della sua provincia) una realtà museale composta da quattro musei, dedicati alla cultura del lavoro e all’archeologia industriale. In particolare, questo museo è interessante proprio perché la sua struttura fisica e la sua collocazione geografica raccontano il conflitto chiave per capire la storia di questo territorio, e forse del nostro stesso Paese: il conflitto fra una modernizzazione industriale accelerata e il permanere di culture locali mai del tutto sradicate. Su questi temi ruota la ricerca estetica di Franca Ghitti e della bella mostra qui allestita, a due anni di distanza dalla morte. Scegliere di presentare la mostra in questo spazio ha un significato preciso perché opera e luogo si specchiano l’una nell’altro.
Le Vicinie, Rogazioni, Litanie sono i primi lavori in legno iniziati degli anni Sessanta, in cui la cultura contadina diventa un archivio a cui l’artista attinge e restituisce presenza. Dagli anni Settanta inizia a utilizzare anche il ferro assemblando scarti e ritagli provenienti dal mondo industriale. Affina un proprio linguaggio che ha una matrice minimalista e che condivide con l’arte povera l’accostamento di diversi materiali naturali, ma a cui sovrappone un’estetica di derivazione contadina, con i suoi riti, con i suoi gesti, con le sue forme. I Libri e i Tondi sono legni di recupero solcati a sgorbia e scalpello da segni ritmicamente ripetuti. Le Spirali sono costruite accostando pezzi di vecchi attrezzi a comporre un mandala che parla di una economia che scompare; o che riattiva, dall’inconscio collettivo di queste terre disorientate, l’orientamento di vecchi labirinti camuni. Proprio come un artigiano, Franca Ghitti rielabora sempre gli stessi materiali e le stesse forme. Le Mappe di materiali e sistemi poveri di copertura, elementi verticali di legno su cui sono fissati lamiera, scarti di rame e ferro, stoffa, realizzati nel 2003, sembrano così un campionario elaborato a posteriori dei materiali che ha usato, o un archivio che rimette ancora in circolo gesti, riti, forme sociali.
Una mostra dovrebbe essere sempre l’occasione per rileggere in una luce nuova il percorso di un’artista: le ottanta opere scelte dai curatori Fausto Lorenzi e Marco Meneguzzo, felicemente collocate negli spazi di questo edificio industriale, restituiscono finalmente la contiguità della ricerca di Franca Ghitti con quella di movimenti, linguaggi e artisti a lei coevi, e ne affermano la centralità. Non solo: nel raccontare la figura di questa artista schiva, che ha scelto di abitare in una area remota della sterminata provincia italiana, e il cui lavoro risulta tanto più contemporaneo oggi, in tempi in cui torniamo a parlare di media tradizionali, la mostra suggerisce una diversa possibilità di produzione e distribuzione della cultura contemporanea, quasi una forma di resistenza, o di decrescita felice, in tempi di globalizzazione: quella dei margini, delle periferie, dei micro territori in rete. Delle tante, diverse, ancora vive provincie italiane.
Rispetto a musei enormi, costosi e spesso autoreferenziali, esiste un capitale interstiziale che l’arte può abitare – e relazioni che fanno bene alla sua lettura.Rispetto a una visione centripeta, scegliere di abitare gli innumerevoli altrove, di cui il nostro paese è pieno. Non costruire, ma riutilizzare. Non ragionare per discipline, ma per affinità e aperture.
Di Daniele Balicco e Cecilia Canziani
(Credit fotografico di Daniele Balicco)