Elezioni Midterm Usa: Obama, il leader non macho
La copertina del New York Post di ieri mostra a tutta pagina un povero nero nudo, con la faccia di Obama, che porta il peso di un barile sfondato. Tre giornalisti della Fox Television sventolano il New York Post perché lo veda tutto il Paese, ridendo di felicità. La “caduta di Obama” era prevedibile, ma non è naturale. Sto dicendo che non è il frutto tipico e sempre atteso della “stanchezza” di un presidente verso la fine del secondo mandato, che è stato avventuroso e difficile ma anche ricco di risultati. La stanchezza sembra essersi verificata sul versante degli elettori.
A quanto pare, non gli perdonano di avere finito due guerre e di non averne cominciata nessuna. Circola la frase “Obama è debole”, e “c’è una mancanza di leadership”. Primo paradosso di una vicenda politica e di un esito elettorale che racconta e certifica ciò che non è. Un lungo e diffuso successo, in quasi tutti gli impegni e le promesse di Obama, viene presentato agli americani (e accettato alle urne) come un fallimento. Ma la voce che annunciava questo insuccesso era quella senza pause e senza soste di una feroce e immensamente finanziata opposizione repubblicana che sostituendo la famosa parola d’ordine anglosassone ( My country, right or wrong, sostengo il mio Paese anche se sbaglia) con un’altra, più antica e selvaggia: il mio partito prima di tutto.
Tipicamente le presidenze americane cominciano con un gesto simbolico, se possibile clamoroso. Obama ha annunciato la riforma del sistema sanitario in modo da assicurare cure mediche a tutti gli americani (prima di lui 40 milioni di cittadini ne erano esclusi) e nel farlo ha preso posizione contro il dominio della finanza privata. Ma perché Obama, che ha governato bene, amministrato bene, rimesso in moto l’economia dopo la grave crisi del 2008, Obama, che ha chiuso o sta chiudendo guerre dal costo umano e dal costo economico immenso, e ha rifiutato di cominciare qualsiasi altra guerra per qualsiasi altra ragione, viene visto come uno che ha fallito e che, per questo, viene abbandonato dagli elettori?
Forse bisogna cominciare da questo ultimo punto. Obama ha tentato in tutti i modi di riportare politica, diplomazia e organizzazioni internazionali al posto delle armi. Aveva le sue fortissime ragioni. Però l’immagine di chi rifiuta le guerre non può più essere quella del leader macho, ben radicata nella tradizione. Si presta a essere trattata come debolezza e come mancanza di leadership. Inoltre provoca la vendetta delle grandi produzioni di armi, che si aggiunge alla poderosa vendetta del mondo delle assicurazioni, dunque della finanza.
Si installa qui la seconda grande imputazione che i Repubblicani, con grande successo, sono riusciti far trasformare in condanna dalla giuria popolare degli elettori: Obama rifiuta di guidare il mondo, ovvero di giocare da leader della grande potenza. Ha visto meglio di altri che chi guida, comanda, e chi comanda impone, creando ondate di risentimento come quelle che si sono formate nel mondo, contro l’America e che durano ancora. Soprattutto perché ritiene che il mondo sia profondamente cambiato. Obama ha capito che non c’erano strade di gloria lungo cui avviarsi con gli stendardi al vento, ha visto il paesaggio disastrato da un immenso dislivello sociale, dentro ciascun Paese e nel mondo, e ha capito che a quel disastro, la diseguaglianza ormai estrema, bisognava dedicare il principale impegno dei governi.
Certo, il mondo ricco che violentemente osteggia Obama e cerca di screditarlo non è maggioritario. Il grosso, in termini di voti, deve per forza essere il popolo di Obama e della lotta alla diseguaglianza. Per questo un tempo esistevano i colpi di Stato. Bisognava forzare fisicamente i cambiamenti voluti. Ora basta cambiare le percezioni, le persuasioni, i sentimenti, le impressioni, le nozioni, e avere forza tecnica e finanziaria per mostrare scenari diversi. Ovvio che il mondo delle assicurazioni e quello delle armi si sono resi conto subito di non avere un popolo. E se lo sono procurato attraverso la religione.
Hanno aperto partito e media, microfoni e giornali, scuole medie e università a un mondo molto vasto di persuasioni e pregiudizi religiosi, di superstizioni e parti separate ma forti di fondamentalismo evangelico e cattolico, un mondo che si estende dall’omicidio del medico abortista all’imposizione del creazionismo in tutte le scuole, un popolo, soprattutto di poveri, che è pronto a votare contro Obama perché sostiene il diritto delle donne a decidere.
Questo tipo di religiosità, rigida, fanatica ed estranea alla cultura, si è vista irrorare di danaro, di luoghi di comunicazione e di inserimento in prestigiose nomine politiche, specialmente locali, dove si possono cambiare curricula scolastici e sentenze. Poiché molte di queste chiese sono nere, ecco il miracolo della ricchezza: portare parte di un popolo di neri poveri a votare, a causa della propria fede religiosa, contro il primo presidente nero. È ciò che è avvenuto. Quei neri non si sono resi conto di avere lavorato accanto e per conto di un sommerso e quasi invisibile zoccolo duro del razzismo bianco.
Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2014