Cultura

Eugenio Barba in Salento: il ‘Baratto’ del teatro collettivo

Era il 1964. Dopo cinquant’anni Eugenio Barba dopo aver lasciato il Salento (patria anche di Carmelo Bene), la sua terra, ed aver lavorato prima in Norvegia e successivamente in Danimarca, dove ha fondato la storica sede di Hostelbro con l’Odin Teatret, torna a casa, in quella Gallipoli (dove lo hanno seguito una master class di una trentina di allievi attori, ed una di sei giovani critici che nel 2015 andranno a vedere il lavoro quotidiano direttamente nella loro fucina danese) che gli concede la cittadinanza onoraria. Una storia avventurosa quella di Barba, racchiusa e raccontata nell’interessante e formativa esperienza di “I Mari della Vita” (dal Mediterraneo al Mare del Nord) che il Tpp, il Teatro Pubblico Pugliese, la Regione Puglia, ed i Cantieri Koreja, hanno imbastito per portare una retrospettiva di due settimane tra Lecce e Gallipoli con studi, seminari, spettacoli di questo favoloso mezzo secolo d’attività, di idee, di vita sopra e fuori dal palcoscenico.

Ha i capelli bianchissimi, la pelle scura ed abbronzata e non dimostra quasi ottant’anni. Il tono è giovanile, i rigorosi sandali ai piedi, il gilet di pelle che sempre lo accompagna. Con la sua presenza, e con i suoi attori che provengono dai cinque continenti (l’Odin, così come il Living Theatre o Grotowsky ha fatto scuola e tracciato linee da seguire nel modo di intendere il fare teatro, consapevolezza e utilità), Barba racconta la storia collettiva, la vicenda culturale di un’arte che si fa territorio e politica, comunità e sensibilità sociale, aggregazione e umanità, che entra nei gangli e nei circuiti associativi pubblici, che ha valenze antropologiche. Mai fine a se stessa.

Nozze d’oro con la cultura, con il teatro, con la terra d’origine da dove, dopo essere emigrato nel ’64 in cerca di fortuna, torna già dieci anni dopo, nel ’74, per costituire la mitica esperienza del Baratto a Carpignano Salentino, un piccolo comune nel leccese. La sua comunità di attori cosmopoliti si mischia per cinque mesi con la povertà e la miseria, economica e scolastica ed alfabetica, della popolazione locale ma l’interazione che ne nasce modella e denota la costruzione, il fondamento e le basi reali e fattive di tutto il discorso dell’Odin diventando simbolo, solco, punto di partenza e di riferimento. Non esiste compagnia ma gruppo che lavora e vive insieme, una sorta di “Comune” dove tutti svolgono mansioni di ogni tipo e genere per aiutare sia la vita quotidiana che la creazione. Niente è scisso. Un duro lavoro giornaliero che inizia con l’esercizio fisico obbligatorio di due ore ogni mattino per ritrovare la propria voce, il proprio corpo, il proprio centro.

Non tanto un teatro, una forma, un’estetica, ma una vera e propria filosofia di vita che ha uno dei suoi possibili sbocchi nella forma artistica del teatro. E Barba (classe ’36) si racconta con la sua vitalità, la sua energia sempre rinnovabile, la sua forza, il suo carisma, i suoi piedi ben piantati nelle radici ma la visione nella continua innovazione nel pensare un teatro diverso ma anche una forma di socialità e di vicinanza alternative. Con l’Odin hanno girato in tournée tutto il mondo (un’ottantina di piece realizzate e portate in tournée in oltre sessanta Paesi; l’ultima produzione è “La vita cronica”) esportando la loro disciplina, attirando sempre nuovi adepti, forze fresche, il rigore artistico. L’aria di rivoluzione dei fine ’60 e dei ’70 che trova una collocazione e non ha perso di peso, di senso e significato nemmeno oggi dove tutto fuori e intorno è cambiato, mutato. La voglia di andare, scoprire, conoscere, mischiare, farsi contaminare. Ecco due parole segnano Barba ed il suo gruppo più di altre: curiosità e conoscenza, sempre allenate, sempre attive e sull’attenti. Un fervore rimasto sveglio, un fermento che dura e non cede alle lusinghe.

Parla di coraggio e possibilità, di opportunità, di dignità. Nessun termine altisonante. E’ un Maestro proprio perché non ha l’arroganza né la prosopopea di voler insegnare a tutti i costi, di tracciare la retta e giusta via: “Io non volevo fare l’artista – dice serio e candido – volevo solo guadagnarmi il pane”. Ed allora comincia da emigrante, come marinaio, come boscaiolo, mentre intorno, norvegesi prima e danesi poi, gli danno del “fascista”, disprezzando le origini italiane dopo l’esito della Seconda Guerra Mondiale. Il teatro così diventa parentesi e guscio, spazio e rifugio, luogo della dignità d’espressione e luogo delle differenze, raccogliendo attorno a sé tanti ragazzi che da ogni parte d’Europa, e non solo, accorrevano ed affluivano nella piccola cittadina danese, erano stati rifiutati o esclusi dalle scuole teatrali tradizionali, dalle Accademie ufficiali. Ad ascoltarlo si aprono molte porte, si gettano ponti: “Il teatro cambia un pugno di persone, ma diventa un virus; uno spettatore di teatro è una tregua dove le distanze vengono annullate, è quel momento collettivo dove l’odio viene abbattuto e si costruisce realmente una polis. Il teatro che non pensa a creare questa circostanza transitoria perde l’unica occasione vitale”.

Che arte sia partecipazione. Un teatro fondato anche sullo scambio, sulla reciprocità, sul dono, sul dare e sul darsi. Qui scatta l’idea del “Baratto” dove “gruppi diversi, con traiettorie differenti, che in un momento celebrano la voglia di stare insieme”. Ecco la funzione del teatro al di là di tante sovrastrutture, delle troppe discussioni ed argomentazioni sul tema. Ma il suo, il loro, perché si tratta sempre di un collettivo, è anche e soprattutto un teatro politico nell’accezione più alta del termine: “Gli italiani sono generosi e creativi ma in Europa la serietà con la quale è vissuta la politica è tutt’altra cosa. L’Italia, per quanto riguarda i politici, non è apprezzata. In un qualsiasi Paese del Nord Europa è impensabile che degli indagati possano essere seduti nelle aule del Parlamento”. Ed è ancora illuminante e provocatorio sul nodo “giovani”: “La mia proposta sarebbe quella di dare ad ogni diciottenne qualche migliaio di euro e mandarlo fuori dall’Italia per un anno e “chiudergli le frontiere”. Vivrebbe la condizione di lontananza, di reietto, di difficoltà ma tornerebbe migliore, con un bagaglio di esperienze di vita fondamentale”. Il teatro capisce la vita.