Renzi è il garante dello status quo, altro che cambiare verso e rottamazioni. E prime vittime di questa situazione sono i giovani. Le cifre sono impressionanti. Secondo il demografo Massimo Livi Bracci, (‘Avanti giovani alla riscossa‘, Il Mulino 2008), ancora prima dell’ultima grande recessione, il 50% dei giovani fra i 15 e 30 anni dipendeva dal reddito della famiglia e gli adulti guadagnavano in media 2,8 volte il reddito dei giovani (contro 2,5 volte in Francia e 1,9 volte in Germania).
Secondo un più recente rapporto dell’Istituto G. Toniolo (‘La condizione giovanile in Italia‘, Il Mulino 2013), oggi la disoccupazione giovanile è arrivata al 44% mentre i cosiddetti Neet (giovani che non lavorano, non studiano e non frequentano corsi di formazione) sono arrivati al 22,25% (primato europeo). Intanto le tasse universitarie sono cresciute negli ultimi dieci anni del 63% mentre le borse di studio riguardano solo il 7,5% degli studenti.
Sempre da tale Rapporto ricaviamo che “un giovane su due si adegua a un salario sensibilmente più basso rispetto a quello che considera adeguato. Una quota molto alta, pari al 47% si adatta a svolgere un’ attività che non è coerente con il suo percorso di studi. Il problema della bassa stabilità del lavoro riguarda invece un giovane su tre. Compensa il relativamente buon rapporto con superiori e colleghi. Tra i laureati l’incoerenza tra lavoro e percorso formativo scende al 30%. In ogni caso, solo il 33% dei laureati afferma di svolgere un lavoro pienamente coerente con quanto ha studiato”.
Cornuti e mazziati, i giovani sono la scusa con la quale il governo Renzi vorrebbe procedere alla rottamazione dei residui diritti dei lavoratori più anziani. In cambio loro però non otterrebbero ovviamente niente. Il sistema fiscale resta congegnato in modo estremamente iniquo, salvaguarda i grandi patrimoni e gli alti redditi e colpisce duramente i redditi bassi, tanto più se si tratta di cosiddetti lavoratori parasubordinati o di piccoli imprenditori all’inizio. Di contratti di lavoro con maggiori garanzie non si parla proprio, anzi si moltiplicano i lavori gratuiti, vere e proprie forme di schiavitù, destinati unicamente a rimpolpare i curriculum. Il precariato dilaga.
Del resto, di fronte alla crisi in essere, sono ben pochi gli imprenditori che ritengono di dover investire nell’economia reale per creare posti di lavoro. Unica via d’uscita, un forte investimento pubblico per creare occasioni lavorative in settori strategici per l’economia nazionale, dal risanamento idrogeologico del territorio, alla riconversione ambientale, alla salvaguardia del patrimonio culturale. Si potrebbe pensare a forme di reddito garantito abbinato al lavoro socialmente utile e formativo in questi settori, per gettare le basi dell’Italia del futuro. Occorre dissipare al riguardo ben due tabù neoliberisti: l’investimento pubblico e il lavoro a tempo indeterminato. Ma si tratta dell’unica possibilità oggi data per risalire la china.
Chi paga? Fa notare giustamente sul manifesto di oggi Tonino Perna che con i 10 miliardi l’anno destinati alla mancetta degli ottanta euro si sarebbero potuti creare 250.000 posti di lavoro a tempo indeterminato. Altre risorse anche maggiori possono essere ricavate dalla patrimoniale proposta dalla CGIL che colpirebbe il 5% della popolazione, i cosiddetti ultraricchi. Se, com’è giusto che sia, questa della disoccupazione giovanile venisse assunta come effettiva priorità nazionale, potrebbero essere convogliate su di essa le risorse da attingere con interventi del tipo di quello appena menzionato e con i risparmi da effettuare sulle spese inutili (tipo F-35 e TAV).
Ma gli ultraricchi non si toccano. Meglio secondo il governo Renzi tagliare ulteriormente le spese sanitarie e sociali e lasciare nell’inedia e nella frustrazione un’intera generazione, costretta, quando va bene, a fare le valigie e cercare lavoro altrove. Occorre invece sperare che le giovani generazioni si ribellino a questo stato di cose, salvando al tempo stesso se stessi e questo Paese.