Il linguaggio e la comunicazione al centro di un convegno organizzato a Bologna dai centri antiviolenza dell’Emilia Romagna. "Le storie vengono spesso distorte. Così la donna è vittima due volte"
Cambiare il linguaggio per cambiare la cultura. È un appello rivolto ai mass media, ma anche alle istituzioni, alle forze dell’ordine e alla giustizia italiana, quello lanciato dai centri antiviolenza dell’Emilia Romagna, che a Bologna, nell’ambito del convegno “Le parole della violenza”, si sono ritrovati per fare il punto sulle modalità con cui stampa, televisioni, radio e web raccontano dei tanti episodi di violenza nei confronti delle donne che ogni anno si verificano in Italia. Storie di maltrattamenti, abusi pubblici o privati, minacce e omicidi “che troppo spesso – spiega Samuela Frigeri, presidente del Coordinamento dei centri antiviolenza emiliano romagnoli – vengono derubricate attraverso stereotipi e luoghi comuni, che le classificano come raptus, gelosia, amore malato. Che vengono distorte al punto tale da trasformare l’uomo, responsabile della violenza, nella vittima della situazione, e la donna in colei che in qualche modo se l’è cercata”.
Un deficit di comunicazione considerato dannoso da chi lotta per contrastare un fenomeno in larga parte ancora sommerso, “poiché favorisce quella stessa cultura su cui attecchisce la violenza contro le donne – sottolinea Simona Lembi, presidente del Consiglio comunale di Bologna – quella del delitto d’onore, dell’uomo capofamiglia che viene umanizzato, che si sfoga sulla moglie, nella cui vita si scava morbosamente per individuare aspetti che in qualche modo giustifichino la violenza perpetrata”. E che secondo Luisa Betti, giornalista ed esperta di diritti di donne e minori, “in molti casi è dovuto a un’ignoranza di fondo in materia di femminicidio, che dai mass media è stato ridotto a uxoricidio, cioè il marito che uccide la propria moglie. Ma il termine in realtà comprende anche un aspetto sociologico, al cui interno rientrano tutti gli episodi di violenza privata o pubblica, così come il rischio che alcune donne vivono di poter essere assassinate”.
La conseguenza è che il medium, che sia la stampa o la televisione, spiega Betti, “ritorna a trattare questo tipo di violenza come un fatto di cronaca nera isolato, optando per una narrazione morbosa da fiction utile a rendere la storia più appetibile, e minimizzando la gravità del reato”: l’offender, cioè l’uomo che commette la violenza, viene descritto come il “bravo ragazzo”, il “padre premuroso”, che per un raptus di gelosia, un momento di follia, ha ucciso. E la donna diventa vittima due volte: del reato, e poi della narrazione che di quella violenza viene resa pubblica.
“Come accaduto per Sonia Trimboli, strangolata dal fidanzato a Milano, un delitto descritto come un impeto quando in passato lui aveva già provato a strangolarla – cita ad esempio la giornalista e scrittrice Marina Terragni – o per Fabiana Luzzi, accoltellata e poi bruciata viva dal ragazzo di 17 anni, a sua volta dipinto come momentaneamente privo di raziocinio, o ancora Matilde Passa, accoltellata dal marito che poi si è suicidato. Un marito dipinto come depresso, entrato in tunnel da cui non poteva uscire se non uccidendo moglie”.
E poi c’è quella “narrazione consolatoria” che descrive il femminicida come un’entità estranea, al di fuori della quotidianità. “Ma anche questo preconcetto è sbagliato e distorce la realtà – spiega Betti – si tende a dare maggiore rilievo agli episodi che vedono come carnefice lo straniero, l’immigrato, o il folle, anche se nell’85% dei casi la violenza contro le donne avviene entro le mura domestiche”.
“Il linguaggio attraverso cui si racconta la violenza maschile sulle donne – precisa Frigeri – è un punto fondamentale, quindi, per combattere il femminicidio, perché è il primo passo per cambiare la cultura della società e i media, così come le istituzioni e le forze dell’ordine, in questo hanno una grande responsabilità”. Il delitto d’onore è stato abrogato in Italia nel 1981, “ma è ancora insito nel modo in cui osserviamo la realtà”.
Lo sa bene Giovanna Ferrari, madre di Giulia Galiotto, assassinata dal marito appena trentenne, l’11 febbraio del 2009, che per anni ha vissuto quello che ricorda come un “processo calvario, persino peggiore dell’omicidio di mia figlia”. Tanto da raccontare quella terribile esperienza in un libro, intitolato “Per non dargliela vinta”. “Non solo i media, ma a volte anche i tribunali sembrano voler sminuire la drammaticità dei fatti – spiega Ferrari – basta che qualcuno pronunci la parola ‘gelosia’ che si forma un preconcetto, e tutti lo seguono. Per questo serve grande attenzione da parte di chi si trova per primo a raccontare episodi di violenza contro le donne. Oggi finalmente molti tabù stanno crollando, di questo fenomeno si parla sempre più spesso, ed è importante perché è un modo per combatterlo. Ma è necessario che, nel farlo, ci si attenga all’oggettività dei fatti, senza pregiudizi”.