“Abbiamo consegnato i due albanesi a una guardia penitenziaria e insieme, lui e noi tre, ci siamo recati a portarli ognuno nella sua cella. Contemporaneamente i due colleghi delle pattuglie di zona hanno accompagnato il Cucchi, con un’altra o la stessa guardia penitenziaria, presso un’altra cella. Io ho visto entrare Cucchi in questa cella che era situata più o meno a metà del corridoio”. Questo dichiara ai pm il 7 novembre 2009, circa 15 giorni dopo la morte di Stefano Cucchi, il carabiniere Francesco Tedesco, in servizio all’epoca presso la stazione di Roma Appia. È uno dei militari che lo hanno arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre, mentre il ragazzo spacciava hashish e cocaina nel Parco degli Acquedotti. Insieme con lui, quella notte e poi nei sotterranei di piazzale Clodio la mattina dopo, c’è anche il collega Gabriele Aristodemo.
Eppure la versione di quest’ultimo della “consegna” dell’arrestato è molto differente. Sentito anch’egli come persona informata sui fatti, ai pm dichiara: “Intorno alle 9.40 io e il carabiniere Tedesco abbiamo consegnato alla polizia penitenziaria i due arrestati albanesi e immediatamente dopo i due colleghi della pattuglia Casilina hanno fatto lo stesso con Cucchi. Più precisamente davamo i nominativi degli arrestati allo sportello dove era presente un appartenente alla penitenziaria. Nell’ufficio c’era anche un altro appartenente alla P.P. mentre altre due guardie provvedevano materialmente a prendere gli arrestati e a portarli nelle rispettive celle. Non so se ognuno dei tre arrestati sia andato in una cella singola perchè dal punto dove mi trovavo non si riescono a vedere le celle”. Chi ha accompagnato Stefano Cucchi in cella, i carabinieri o la penitenziaria? E perché uno dei due militari vede la cella e l’altro no?
Non è l’unica contraddizione che emerge dai verbali di assunzione di informazioni, su cui adesso la famiglia Cucchi si augura che il procuratore Pignatone possa far luce. Tedesco preleva Cucchi per portarlo dalla cella dei sotterranei all’aula 17 “senza le manette”; Aristodemo sostiene invece di averlo preso, insieme a Tedesco, “con le manette”. C’è poi un elemento sul quale non solo hanno ricordi differenti, ma sono stati entrambi smentiti dai reperti. Tedesco parla dei pantaloni che indossava Stefano come di jeans “molto trasandati, piuttosto sporchi e forse avevano qualche taglio”. Aristodemo conferma il “taglio all’altezza della coscia destra”, ma non ricorda “di aver visto né particolari macchie né particolari rotture”. La foto dei jeans di Stefano, che questo giornale ha già pubblicato, evidenzia come sul tavolo dell’obitorio le uniche macchie presenti fossero quelle di sangue e che non era presente alcun taglio, a eccezione dei buchi eseguiti dai periti per le analisi.
Entrambi i carabinieri sostengono che il ragazzo camminava normalmente, ma l’agente penitenziario Nicola Minichini che lo prende in consegna subito dopo l’udienza di convalida ha detto invece al Fatto di averlo visto camminare con fatica. C’è poi un particolare, nel racconto di Tedesco, che stride con la registrazione di quel giorno e con la testimonianza del padre Giovanni: il militare afferma che Cucchi “ha parlato tranquillamente al giudice” e ha “salutato tranquillamente il padre”. Nell’audio dell’udienza si sente chiaramente il ragazzo affermare: “Mi scusi, signor giudice, ma non riesco a parlare bene”. E sappiamo quanto teso fu l’abbraccio tra Giovanni e Stefano: “Papà, ma lo vuoi capire che m’hanno incastrato?”. Incongruenze, però, che evidentemente la Procura di Roma non ha ritenuto determinanti ai fini delle indagini.
Ieri il procuratore capo, Giuseppe Pignatone, ha aperto un fascicolo “atti relativi”, cioè senza indagati e senza ipotesi di reato, dopo la denuncia presentata dalla famiglia Cucchi contro il perito Paolo Arbarello, consulente dei pm accusato di aver redatto una falsa perizia sulla morte di Stefano. Il professore sta valutando in queste ore se querelare Ilaria Cucchi. E la stessa sorella del ragazzo ha nuovamente incontrato Pignatone. Intanto la storia di Cucchi continua a mobilitare le coscienze. A Roma una fiaccolata “Mille candele per Stefano”, promossa dai familiari e da Acad (Associazione contro gli abusi in divisa). Decine le adesioni tra comitati, associazioni, municipi, centri sociali e singoli cittadini.
Da Il Fatto Quotidiano dell’8 novembre