Una frase riassume i cambiamenti profondi avvenuti all’interno dell’Unione Europea dallo scoppio della crisi del debito sovrano del 2011 ad oggi, una frase che è stata pronunciata da Jean-Claude Juncker, nuovo presidente della Commissione europea, in risposta proprio al nostro premier: “Io non sono il capo di una banda di burocrati ma il presidente della Commissione europea, un’istituzione politica alla quale è dovuto rispetto”.
Dunque il presidente della Commissione, sebbene non eletto dal popolo come la maggior parte dei capi di Stato dei Paesi membri – fatta eccezione del nostro Renzi naturalmente – non solo è un politico ma ha il potere di bacchettare gli altri leader europei e di esigere da loro rispetto. Renzi infatti non è stato l’unico ad essere criticato, a David Cameron che si è rifiutato di pagare 2 miliardi di euro in più quale contributo all’Unione, calcolati sulla base di nuovi parametri introdotti dalla Commissione, Juncker ha ricordato di non essere ‘popolare’ tra gli altri premier a causa del suo atteggiamento sempre poco conciliatore.
Insomma Jean-Claude Juncker appena messi i piedi sotto la scrivania di Bruxelles ha voluto far capire a tutti che i tempi sono cambiati e che il processo d’integrazione politica dell’Unione ha subito un’accelerazione, guarda caso proprio grazie alla gestione della crisi dell’euro.
Sotto questo punto di vista gli ultimi tre anni sono stati cruciali. La convergenza politica si è svolta dietro le quinte della crisi economica, le istituzioni ‘politiche’ come la Commissione, hanno manovrato nell’ombra mentre tutti i riflettori erano fissi, ed ancora lo sono, su quelle economiche e monetarie. Così tutti ancora accusano la Banca centrale europea, e l’ex governatore, Jean-Claude Trichet, di aver forzato la mano all’Irlanda, costringendo il governo a chiedere aiuto all’Unione per accedere al bail-out, il piano di salvataggio economico. Si parla di una sorta di ricatto: o il governo si sottomette alla politica di austerità o la Bce taglia i fondi e l’Irlanda va in bancarotta. Si sostiene che questa decisione sia stata presa per salvaguardare in toto il credito elargito dalle banche d’affari, principalmente quelle francesi e tedesche, e dalle istituzioni sovranazionali come il Fondo Monetario e l’Ue.
Discorso analogo viene fatto per l’Italia e la Spagna, insomma la causa ultima della recessione e della deflazione viene attribuita all’abuso di potere di uomini come Trichet. Tanto è il risentimento per i banchieri che anche quelli centrali, come Trichet o Draghi, che appartengono ad una specie totalmente diversa, vengono messi alla gogna ed accusati di fare politica. Certo costoro fanno il gioco del grande capitale ma non sono loro i grandi burattinai.
In realtà tutto ciò che Trichet ha fatto, dalla lettera al governo irlandese fino a quella per Berlusconi e Zapatero, faceva parte di uno schema politico disegnato da chi allora dirigeva la Commissione, José Manuel Barroso, e da chi teneva in mano le redini del Consiglio d’Europa, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. E tra questi tre personaggi quello che ha messo a tavoletta la folle corsa versa l’integrazione politica è stato proprio Barroso.
Mesi fa il Financial Times pubblicò una serie di articoli dove si raccontava come si evitò il grexit, l’uscita della Grecia dall’Euro. In sintesi la Merkel e Sarkozy erano favorevoli al referendum greco proposto da Papandreu che al 99 per cento avrebbe portato la Grecia fuori dall’eurozona. Erano pronti per quest’evenienza e psicologicamente lo erano anche i mercati, ed è quanto dissero a Papandreu a Nizza, durante l’incontro avvenuto sullo sfondo del G20. Barroso non era d’accordo. Durante il viaggio di ritorno ad Atene, mentre Papandreu dormiva, Barroso ed il ministro delle Finanze greche si accordarono per non far passare il referendum.
Lo scopo di questo sabotaggio politico sembrava essere quello di salvare l’euro, ed infatti il governo greco piegò la testa al volere di Barroso per il bene non solo della Grecia ma dell’Europa unita. Alla luce degli ultimi eventi, però, è chiaro che l’obiettivo era un altro: scavalcare l’organo politico più potente dell’Unione, il Consiglio d’Europa, e sostituirvi la Commissione. E così è stato.
L’idea di salvare l’Euro a tutti i costi è diventata il paravento dietro al quale i ruoli delle istituzioni europee sono stati ridisegnati senza chiedere permesso a nessuno, specialmente agli elettori. Il premier francese va e viene, i governi cadono sulle bucce di banane politiche, e l’Italia ne sa qualcosa, le elezioni nei Paesi membri non sono coordinate e la durata delle cariche varia da nazione a nazione. Il presidente della Commissione invece rimane in carica fino alla fine del suo mandato. Una continuità temporale che ne rafforza il potere.
Le lettere di Trichet e le rassicurazioni di Draghi “faremo tutto per salvare l’euro” sono stati lo specchietto per le allodole per nascondere gli strumenti chiave che hanno ridotto la sovranità non solo economica ma soprattutto politica degli Stati membri. E’ questo un bene? Non è questa una domanda che possiamo più porci. Il processo d’integrazione è arrivato ad un punto tale che ciò che nel 2011 era possibile, anche se estremamente complicato, ovvero l’uscita dall’euro, oggi sarebbe una catastrofe, si pensi solo al fatto che dal 4 novembre è la Bce e non più la Banca d’Italia ad avere le funzioni di supervisore della maggior parte delle banche italiane. L’integrazione è diventata irreversibile senza frantumare tutto il giocattolo.
Se la difesa ad oltranza della moneta unica ha fatto sì che il Renzi del 2014 abbia meno peso politico a Bruxelles rispetto al Berlusconi del 2011, anche Cameron che ha mantenuto la sterlina è più debole. Nello scontro con un’Unione Europea politicamente sempre più integrata anche il Regno Unito appare debilitato. Il problema non è più la moneta unica ma il potere politico.