La risalita dei repubblicani alle elezioni di metà mandato e l’isolamento anche tra i democratici dell’incerto presidente Obama ha ridato quota alle lobby che condizionano la politica americana e renderanno più problematiche le svolte richieste dalle classi sociali meno abbienti e dai movimenti ambientalisti. Esamino qui i risvolti di questo passaggio politico di oltre Atlantico sulla politica climatica ed energetica del pianeta.
Proprio a sondaggi già confermati a sfavore dei “Democrats” e a pochi giorni di distanza dalla discussione in Congresso della posizione da adottare da parte degli Stati Uniti per il prossimo vertice sul clima, il Pentagono ha pubblicato un nuovo rapporto che suona l’allarme sulle minacce alla sicurezza nazionale rappresentata dal cambiamento climatico e prevede che su di esso si sfidino sul serio le forze militari. Secondo il rapporto, le truppe degli Stati Uniti saranno sempre più schierate all’estero e molte delle basi navali degli Stati Uniti diventeranno vulnerabili alle inondazioni per l’innalzamento del livello del mare e le sempre più violente tempeste tropicali.
Anche se sembra delittuoso parlare del riscaldamento globale come di una “minaccia alla sicurezza nazionale” piuttosto che a un’emergenza planetaria, sia in termini di giustizia ambientale che intergenerazionale, questo è il taglio di tutto il rapporto, d’altra parte preoccupato per la prima volta dell’irreversibilità del cambiamento. Nel momento in cui il negazionismo climatico esercita ancora un’influenza sulla politica degli Stati Uniti, il focus non si sposta ancora su un nuovo trattato vincolante sul clima globale, ma si aggrappa a mantenere inalterati il tenore di vita e la sicurezza degli americani.
È così che il Ministero della Difesa si attrezza per affrontare l’innalzamento del livello dei mari a 1,5 metri per “i prossimi 20 o 50 anni” alla base navale di Norfolk e a studiare “scenari di pianificazione di difesa” di fronte alla diminuzione di ghiaccio marino artico, che creerà nuove rotte di navigazione e aprirà nuove aree per l’estrazione delle risorse. Si privilegia, in definitiva – come afferma Eric Bonds in Foreign Policy in Focus di ottobre – l’adattamento al cambiamento, anziché tagliare le emissioni in modo aggressivo, obbiettivo conseguibile solo con massicci investimenti pubblici atti a creare un’economia a basse emissioni di carbonio.
Nel suo nuovo libro, Naomi Klein fornisce una serie di possibili fonti di finanziamento per gli investimenti pubblici compresa l’eliminazione delle sovvenzioni alle imprese di combustibili fossili, una carbon tax, tasse sulle transazioni finanziarie e la patrimoniale. In particolare, il taglio del 25% dei bilanci della difesa di 10 paesi, compresa l’Italia, per liberare ulteriori 325 miliardi di dollari da spendere ogni anno per l’efficienza energetica e gli sforzi di energia rinnovabile.
Si tenga conto che il governo USA invece di continuare a pagare per 11 gruppi di portaerei per pattugliare il mondo fino al 2050, potrebbe rimuovere 2 gruppi e mettere i risparmi in pannelli solari su 33 milioni di case americane! La saggista canadese propone una politica economica e industriale in controtendenza, che fornirebbe risparmi, occupazione, equità. Una politica subito definita dai repubblicani “un attacco al capitalismo e alla classe media americana” e dall’ex colonnello e astronauta Nasa Harrison Schmitt “un cavallo di Troia per un socialismo nazionale”.
Le élites conservatrici di tutto il mondo si sentono rinfrancate se si guarda al cambiamento climatico attraverso la lente militarizzata che prende il nome di “sicurezza nazionale”. Questo può far dimenticare il debito contratto verso la natura e diminuire la nostra immaginazione politica collettiva nel momento in cui abbiamo bisogno di tutta l’intelligenza e creatività e di tutta l’innovazione che possiamo chiamare a raccolta per affrontare la principale sfida del nostro tempo.
Sarà ancor più complicato per Barack Obama dopo la recente sconfitta elettorale, sostenere il piano per la riduzione della CO2 dell’Epa, che richiederebbe il 30% di diminuzione delle emissioni entro il 2030. Il piano è stato progettato per sostituire il carbone come fonte principale per la produzione di energia elettrica con maggiore uso di gas naturale, più rinnovabili ed efficienza energetica e un nuovo sistema più decentrato di generazione e distribuzione di energia elettrica. A dimostrazione delle nuove difficoltà, sono tornate alla carica le grandi lobby del nucleare – pronte al rilancio di tre grandi progetti da oltre 12 miliardi di dollari – e le corporation che chiedono centrali di grande potenza (l’industria nucleare afferma che le garanzie sui prestiti sono troppo ridotte, mentre Edison ha fatto immediata richiesta per una centrale a gas da 1250 MW).
Già il giorno dopo le elezioni, l’industria americana del nucleare dichiara di aver bisogno di maggiori sussidi sotto forma di garanzie bancarie sui prestiti: le stesse che i repubblicani avevano attaccato per le rinnovabili. Bloomberg, da non confondersi con Greenpeace, ammette con una certa preoccupazione che il controllo repubblicano del Congresso farà probabilmente crescere la potenza nucleare. Pipeline Builder Olio TransCanada Corp. può trovare adesso il modo per far approvare la pipeline Keystone XL dal Canada alle raffinerie del Golfo del Messico per le sabbie bituminose da scisto, su cui fino ad ora Obama aveva posto un veto.
Insomma: il clima è brutto, ma non sembra turbare le alchimie politiche cui siamo sottoposti quotidianamente nel nostro piccolo buco da cui guardiamo il mondo.