Un “successo” per la Generalitat di Artur Mas. Un “atto inutile di propaganda” per il governo di Mariano Rajoy. Il giorno dopo il referendum della Catalogna (o meglio lo pseudo-referendum) la guerra tra Barcellona e Madrid non cenna a smorzarsi. I dati parlano chiaro: 2.043.000 persone sono andate alle urne di cartone gestite dai 40mila volontari, per dire la loro ed essere ascoltati. Di questi 1.649.239 (l’80,72 per cento) ha espresso un doppio sì a favore dell’indipendenza. Eppure l’affluenza totale non ha superato il 33%, un dato di partecipazione di gran lunga inferiore rispetto alle ultime elezioni. Ma si sa, il voto è stato simbolico, e senza alcun valore legale. Il problema dunque resta ben presente sul tavolo politico di una Spagna che da 11 mesi si divide tra unionisti e indipendentisti.
Era il 12 dicembre del 2013 quando per la prima volta il presidente Mas e i leader di Ciu, Erc, Icv-Euia e Cup (tutti partiti indipendentisti) annunciavano il referendum del 9 novembre 2014. Da allora Barcellona ha cercato di esprimersi in due modi: chiedendo al Parlamento spagnolo di rinunciare alle sue competenze in merito ai referendum e promuovendo, dopo, la legge catalana sulla consultazione alternativa al referendum. A Madrid la Camera aveva risposto picche votando contro (299 contro 47) l’autorizzazione al referendum, di risposta Barcellona aveva così elaborato una legge ad hoc per la consultazione. Il 19 settembre 106 dei 135 deputati catalani approvano la Ley de consultas: il presidente Mas, il 27 settembre, firma il decreto e chiama tutti i catalani al voto. Dopo due giorni però arriva l’altolà del governo Rajoy: un ricorso alla Corte Costituzionale che quello stesso giorno si riunisce in gran fretta per sospendere il decreto di Barcellona e parte della legge sul referendum. Il botta e risposta continua: Artur Mas convoca una conferenza stampa e riconosce di non poter convocare legalmente una consultazione.
Il 9N diventa così la giornata del voto simbolico. Ma nemmeno questo va bene. La battaglia si è protratta fino alle prime ore del mattino del 9 novembre. Quattro giorni prima arrivava l’ennesimo no al governo catalano da una riunione-lampo del Tribunale costituzionale, con un voto all’unanimità che sospendeva la “consultazione alternativa” in chiave indipendentista. Il presidente della Generalitat non è però più disposto a fare marcia indietro: decide di continuare la strada tracciata “con tutte le conseguenze” e presenta un ricorso al Tribunale Costituzionale per riconsiderare la decisione.
Oggi, il giorno dopo, si attendono le conseguenze legali e politiche del gesto. Ma sono in molti a pensare che il rigore del governo centrale sia eccessivo: la partecipazione lo dimostra. La metà dei catalani è rimasta a casa. I recenti sondaggi danno indipendentisti e lealisti sul filo del rasoio, intorno al 50% ciascuno. Secondo l’ultimo studio del Centro di Studi di Opinione della Generalitat, almeno un 48,5 per cento dei catalani preferirebbe continuare a far parte della Spagna. Insomma, pro o contro l’indipendenza il problema resta, perfino più difficile di prima. E in un clima di diffidenza sempre più alto.
Da Madrid la sinistra del Psoe preme per una riforma costituzionale mentre a Barcellona, forti dei due milioni di elettori, è già nuovo scontro: oggi Artur Mas ha parlato di elezioni regionali anticipate come un vero referendum sull’indipendenza. Se vincessero i separatisti il leader di Erc, Oriol Junqueras – il probabile favorito – è già pronto per una dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Dal palazzo della Moncloa Rajoy, invece, non ha detto una parola. Ma è il primo ministro britannico David Cameron, lui che solo due mesi fa rischiava di perdere la Scozia, a dargli un consiglio: il Regno Unito vuole che la Spagna resti “unita”, ma è importante che i referendum plebiscitari siano convocati in forma legale.