Politica

Lega, Salvini fa il “sindacalista” ma mette 71 dipendenti in cassa integrazione

Le casse del Carroccio sono vuote, nonostante i 120 milioni di euro di finanziamenti ricevuti nell'era del dopo Bossi. E il leader del partito deve così ricorrere agli ammortizzatori sociali per i suoi impiegati, sedendosi al tavolo di crisi come "parte datoriale"

L’ironia, stavolta, è beffarda; la Lega, oggi, è il partito verde che più verde non si può. Le battute, in realtà, lasciano il tempo che trovano quando ci sono di mezzo dei posti di lavoro e un segretario, Matteo Salvini, impegnato a difendere chi perde il posto tra le piccole e medie imprese della Padania e non solo. Ora però, lo stesso Salvini si trova a dover fare il commissario liquidatore dentro casa sua.

Fino a sedersi – qui la beffa sfiora quasi il contrappasso – come parte datoriale al tavolo di crisi aperto al ministero dello Sviluppo Economico sulla chiusura degli uffici della sua Lega. Settantuno dipendenti sono a un passo dalla cassa integrazione. Sessantanove impiegati, alcuni alle dipendenze del partito da vent’anni. Tra loro sette autisti (di cui sei dedicati a Umberto Bossi, che turnano tra Roma e Milano, e che a questo punto dovranno essere stipendiati direttamente dal fondatore della Lega, che non potrà accedere al contributo di partito concordato con la precedente amministrazione leghista), tre portieri, quattro contabili, e poi tutti gli altri dipendenti da Varese a Sondrio, da Torino a Vicenza, da Pordenone a Roma.

 Azzeramento per il quartier generale di via Bellerio. E i lavoratori attaccano: “Si sono mangiati tutto”

Così, nel momento in cui Salvini sale nei consensi fino al punto d’incalzare Silvio Berlusconi sul fronte della futura leadership del centrodestra, con l’aspirazione addirittura di contendere un possibile ballottaggio elettorale all’altro Matteo, quello che oggi governa l’Italia, non senza aver fatto prima incetta di voti dell’elettorato grillino disorientato, ecco che l’intera impalcatura organizzativa del partito che dovrebbe sostenerlo in questa battaglia crolla. Perché le casse sono vuote.

Che fine abbiano fatto i 120 milioni di euro di finanziamenti ricevuti nell’immediata era del dopo Bossi è mistero su cui i dipendenti il cui posto di lavoro è in bilico vogliono vedere chiaro. Con l’ultima debacle elettorale, i rimborsi sono scesi da 8,8 a 6,5 milioni. Le quote associative sono a meno 30%. Tre milioni se ne sono andati per le cause legali del dopo-Belsito, malgrado siano già stati spesati 881mila euro di perdite per «assegni emessi a favore di persone sconosciute» e 417mila euro «per prelievi non giustificati»; ricordi dei tempi gloriosi in cui i quattrini del Carroccio finanziavano le lauree del Trota, la bambinaia di Calderoli, le hit come “Kooly Noody” o la scuola Bosina dei “liberi popoli padani” dove insegnava Manuela Marrone, moglie di Bossi, e oggi chiusa sempre per mancanza di denaro.

Dopo quell’era di fasti e di diamanti, il contraccolpo ha mietuto vittime nell’organico del partito con una prima falcidia di dipendenti, ridotti allora da 80 a 73 dipendenti. Poi è arrivato il 2013, chiuso in rosso per 14,4 milioni e il patrimonio crollato a 16 milioni. Ed è stata la fine. «Abbiamo due anni di vita»  aveva vaticinato, un po’ funereo, Stefano Stefani, segretario amministrativo del movimento. Poi, nel drammatico congresso del luglio scorso, anche lui ha gettato la spugna: “Non c’è più un soldo, inutile restare”.

Salvini: “Non c’è altra scelta. ‘ora in poi faremo conto solo sui volontari”

Si sono mangiati tutto, fregati i soldi e arricchiti sulla nostra pelle”, masticavano amaro i dipendenti di Bellerio. Infatti, ora per loro c’è il baratro. «Considerato la complessiva situazione economico-finanziaria e patrimoniale –  si legge nella raccomandata inviata dall’amministrazione di via Bellerio al ministero -, la Lega Nord è disponibile a valutare l’applicazione di eventuali misure di sostegno al reddito ed all’occupazione per i dipendenti interessati che possano attenuare le conseguenze sul piano sociale dell’attuazione del programma di riduzioni e messa in mobilità».

A questo si aggiunge anche un altro strappo. Oltre ai 71 esuberi, ci sono anche i dipendenti dell’Editoriale Nord, la società della Lega che edita il giornale La Padania, con un’altra ventina di dipendenti tra giornalisti e tipografi. E’ notizia fresca che La Padania chiuderà l’edizione cartacea e resterà solo on line, colpa – ha attaccato Salvini – del dimezzamento dei fondi all’editoria (compresa quella di partito), da 100 a 50 milioni di euro, ma le coperture erogate dal governo finora riguardano solo 27 milioni, dunque un quarto rispetto all’ammontare degli scorsi anni. Per La Padania, insomma, la prospettiva era di dover affrontare un intero anno senza contributi pubblici. Impossibile.

La crisi tocca anche il quotidiano La Padania, che da dicembre sarà solo online: altri 20 a rischio

“Siamo poveri di soldi, ma ricchi di idee”, ha cercato di rinfrancare le truppe il segretario Salvini, ma l’orizzonte è nero per quello che è stato il vero cuore pulsante della Lega, la “macchina elettorale” di via Bellerio. “Non avevamo altra scelta  – chiude ancora Salvini – ma d’ora in poi faremo conto solo sul nostro gettonatissimo volontariato”.

Scalare la leadership del centrodestra solo con l’aiuto di qualche volontario, seppur agguerrito, è impresa titanica se non impossibile, ma si sostiene, non a torto tra sondaggisti e politologi, che nel vuoto lasciato da Berlusconi e Forza Italia a destra, oggi qualsiasi miracolo è possibile. La zavorra dei conti della Lega, tuttavia, può rivelarsi fatale per Salvini. Al pari della sua doppia veste di “ufficiale liquidatore” del vecchio Carroccio e sindacalista quasi più duro e puro di Landini che arriva a dire “non mi interessa la Padania libera se chiudono le fabbriche” e approfitta di ogni trasmissione televisiva per dire che segue personalmente vertenze e trattative.

Peccato che una delle “fabbriche” che chiude  in Padania sia proprio la sua. E senza grande speranza per il futuro. Anche l’alienazione della sede di via Bellerio, per dirne una, non si presenta facile, in quanto anni fa il Comune di Milano (probabilmente per venire incontro a qualche difficoltà economica del Carroccio) modificò la destinazione d’uso dell’immobile (un tempo sede di un’azienda inquinante) in sede di partito politico. Il che rende obbligata l’individuazione di un possibile compratore: o via Bellerio passa a un’altra forza politica o, oggi come oggi, la sua cessione appare impraticabile. E visto come stanno un po’ tutte le casse dei partiti, diventa complicato trovare qualcuno con i soldi giusti per comprare quell’edificio di sapore un po’ sovietico e dalla storia un po’ pesante da gestire. Forse troppo pesante anche per il rinnovatore Salvini.