«È evidente che Dio mi ha riservato un destino oscuro. Non proprio crudele. Semplicemente oscuro. È evidente anche che mi ha concesso una tregua. All’inizio, ho riluttato a credere che potesse essere la felicità. Mi sono opposto con tutte le mie forze, poi mi sono dato per vinto, e l’ho creduto. Ma non era la felicità, era solo una tregua».Mario Benedetti, scrittore e poeta uruguaiano (1920 – 2009) è uno dei grandi sudamericani del Novecento, noto quanto Pablo Neruda o Octavio Paz e La tregua (Nottetempo, traduzione di Francesco Saba Sardi) è il romanzo che lo ha fatto conoscere in tutto il mondo.
Uscito nel 1960, è un libro che oggi merita di essere trattato come un classico. La bellezza asciutta della scrittura e il tono malinconico, da andantino, dove il dolore è sempre un po’ trattenuto, rendono La tregua indimenticabile.
La struttura è quella di un diario e la voce narrante quella di un impiegato di Montevideo, che ricorda un po’ il Bernardo Saoares di Pessoa, nel Libro dell’inquietudine, per la distanza con cui guarda alla vita. Santomè (“signore maturo, esperto, canuto, posato, quarantanove anni, senza gravi acciacchi, ottimo stipendio”) è vedovo, ha tre figli e sta per andare in pensione, “tutto è stato sempre troppo obbligatorio” perché potesse sentirsi felice. Ha “una tristezza con vocazione all’allegria” e nutre la “sontuosa speranza che l’ozio sia qualcosa di pieno”, che la fine del lavoro significhi un incontro con se stesso. Invece è proprio sul posto di lavoro, durante gli ultimi sei mesi, che arriva la rivoluzione: si chiama Avellaneda, ha vent’anni e gli fa scoprire l’amore.
All’inizio della relazione clandestina, Santomè sta in guardia. Si rende conto che “l’esperienza e il vigore sono coetanei per pochissimo tempo” e che lui si trova in quel pochissimo tempo, che sta vivendo gli ultimi anni in cui è ancora possibile trovare il piacere (“la tragica fretta di questi cinquant’anni che mi tallonano”) ma resta diffidente nei confronti della felicità (“sono troppo sul chi vive per sentirmi felice. Sul chi vive nei miei confronti, nei confronti della sorte e di quell’unico futuro tangibile che ha nome domani”). Poi, piano piano, complice la dolcezza di lei, si abbandona (“Quando si è nel cuore stesso della vita, è impossibile riflettere”), diventa “vulnerabile come una vongola, come un ciottolo levigato” e scopre una nuova dimensione di sé, con inaspettate riserve di tenerezza, dove persino il desiderio è qualcosa di puro e l’istante è l’unico vero succedaneo dell’eternità. “Quell’oppressione al petto era la vita”. Ma Dio, “un sadico onnipotente”, gli porterà via Avellaneda, e con lei “quattro quinti del suo essere”, lasciandolo più vuoto di prima.
Un romanzo sul tempo – intenso, poetico, dolente – di quelli da conservare nell’anima, non solo in uno scaffale.