Terremoto dell’Aquila, Cucchi, Berlusconi, Meredith, sono sempre più frequenti i casi in cui le sentenze di primo grado vengono ribaltate in appello. Poi, in Cassazione, c’è da aspettarsi che ci sarà un nuovo rovesciamento con rinvio al giudice di merito. Un minimo di logica fa cadere miseramente ogni congettura sul fantomatico partito unico dei magistrati. Se non c’è accordo tra giudici di diverso livello, a maggior ragione non si vede perché dovrebbe esserci tra organi inquirenti e giudicanti. Quindi, decade anche la vulgata che porterebbe alla separazione delle carriere. L’autonomia e indipendenza dei magistrati che svolgono diverse mansioni li porta spesso a contraddirsi con sentenze diametralmente opposte.
Il problema non è (solo) la “casta” dei magistrati ma, più in generale, lo stato penoso in cui versa l’intero settore della giustizia. A cominciare dal momento fondamentale della produzione normativa: abbiamo troppe leggi, contraddittorie tra loro, scritte male, votate sull’onda delle emozioni, in continua propaganda elettorale, alcune ad hoc per determinati processi. Già i latini dicevano: “Corruptissima republica plurimae leges”, cioè le leggi sono moltissime quando lo Stato è corrottissimo.
In una situazione di confusione legislativa, ad ogni caso, comunque venga ricostruito nella fattispecie concreta, possono essere applicate tante, troppe norme in contrasto tra loro. Di qui l’aleatorietà delle sentenze e l’amplificazione a dismisura della discrezionalità dei magistrati, che vanno a coprire vuoti di potere generati dalle mancanze (di credibilità anzitutto) di altri soggetti, a partire dalla politica per arrivare agli organi di controllo, ai giornalisti, agli ordini professionali e infine allo scarso senso civico dei cittadini.
Le specifiche responsabilità che in taluni casi si ravvisano a carico di alcuni magistrati, vanno collegate anche al clima ostile in cui questi si trovano a operare: non solo per la campagna di discredito che da anni viene condotta sistematicamente sui principali media, ma per il numero enorme di procedimenti da smaltire in strutture fatiscenti, con mezzi insufficienti, organici dimezzati. C’è un’oggettiva difficoltà a istruire le pratiche e leggere le carte per arrivare a un giudizio sereno.
Tutto questo è il frutto di un ventennio di riforme della giustizia tanto proclamate quanto irrealizzate. Con una classe dirigente, in primis politica e imprenditoriale, affetta da livelli di corruzione e malaffare inauditi, gli unici interventi realizzati hanno riguardato norme procedurali relative ai casi incombenti al momento.
Aule parlamentari, Corte Costituzionale, Ministero della giustizia, Tribunali e Corti, sono state pressoché costantemente impegnati per gli affari di Berlusconi e dei suoi soci, spesso accompagnati dai troppi epigoni cresciuti nelle fila della parte che a lui avrebbe dovuto contrapporsi. In realtà, c’è stata sostanziale continuità e contiguità con i soi disant comunisti alla Bertinotti. Il Ministero della Giustizia, sia quando era retto dai Castelli e Alfano tanto quanto ai tempi di Diliberto e peggio Mastella, è sempre stato indirizzato contro le Procure. E giù col pasticcio sul falso in bilancio, i cosiddetti “Lodi” che hanno impegnato Parlamento e Corte Costituzionale per anni, la tremenda e schizofrenica “ex Cirielli”, le rogatorie internazionali, il patteggiamento in Cassazione (per Dell’Utri), le boiate Bossi-Fini-Giovanardi e le bozze Boato, i ripetuti svuota-carceri a vuoto, il giusto processo, la prescrizione lunga nel processo breve, indulto e indultino, liberazione anticipata e domiciliari per tutti.
A parte la tanto sbandierata certezza della pena, quella che è stata pregiudicata con queste politiche dissennate è la stessa certezza del diritto. Ne resta un Paese allo sbando, in preda a malfattori e prepotenti grandi e piccoli. Con l’esposizione ai potenti movimenti migratori provenienti dalle aree di crisi, tra i malintenzionati di tutti i contesti si è sparsa l’idea che in Italia, con un po’ di soldi e un buon avvocato, si possono fare affari illeciti e commettere reati senza pagare alcuna conseguenza.
Tra la popolazione italiana, sempre più invecchiata e esposta essa stessa a una crisi economica senza precedenti né vie d’uscita, è aumentata a dismisura la percezione dell’insicurezza; non solo nelle grandi città, nelle periferie più disagiate, ma anche nei centri minori, nei luoghi di provincia, nelle campagne dove fino a qualche anno fa ci si ritirava in cerca di tranquillità. Sempre più frequenti i casi di aggressioni, a volte sfrontate, perpetrate alla luce del sole.
Il bello è che a soffiare sul fuoco della sicurezza, condita di non velati elementi di xenofobia, sono le stesse forze politiche che hanno la principale responsabilità della situazione che si è creata. C’è da scommettere che chi è stato al potere quasi sempre negli ultimi 20 anni si candiderà a raccogliere i frutti elettorali del disagio generalizzato.