Era un irregolare, Frank Zappa, non classificabile nelle categorie standard musicali. Era un dissacratore che prendeva in giro tutto e tutti. Ed era un musicista straordinario, che pretendeva il massimo da se stesso e da chi suonava con lui. Era abbastanza e anche di più, insomma, perché un curioso della musica e amante delle contaminazioni come Stefano Bollani, pianista jazz ma anche divulgatore, entertainer, scrittore, trovasse ispirazione in lui. E a quella figura così atipica e troppo presto scomparsa (nel 1993, a soli 43 anni) dedicasse un suo personalissimo omaggio. Il risultato è un album che dichiara il suo intento fin dal titolo: Sheik yer Zappa. Per i non fan di Zappa, un titolo oltre che impronunciabile totalmente incomprensibile. Per tutti gli altri – qualche milionata – il collegamento è invece presto fatto e porta dritto a Sheik Yerbouti, un album del 1978 che aveva in copertina Zappa travestito da sceicco e, nel titolo, la palese presa in giro di una hit pop del momento, Shake your booty.
Lo spirito del nuovo album di Bollani, dunque, è quello. Ma non c’è dissacrazione nella rilettura che il pianista (accompagnato nella sua impresa da Jason Adasiewicz al vibrafono, Josh Roseman al trombone, Larry Grenadier al contrabbasso, Jim Black alla batteria) fa dei sei brani scelti d’istinto (altri sono invece suoi o firmati con Adasiewicz). Ma nemmeno timore reverenziale. Anzi, al contrario di tutte le numerose band che rifanno Zappa alla lettera e in ogni singola nota (secondo i rigidi dettami della Fondazione a lui intitolata), Bollani si è preso la libertà (inaspettatamente concessa dalla vedova di Zappa) di prendere la sua musica come spunto e improvvisarci sopra: “C’è l’ombra di Zappa che ci segue. C’è lo spirito con cui lui prendeva tutte le musiche del mondo, le mescolava”.
L’album è composto da registrazioni dal vivo fatte in vari concerti e i brani sono il frutto di una scelta casuale: “Sono i primi che mi sono venuti in mente, riandando con la memoria a quelli che ascoltavo dopo essere stato folgorato da un suo album a 17 anni, quando ero ancora un talebano del jazz, unicamente per il titolo: Does humor belong in music? Lo humor appartiene alla musica? Che razza di domanda! E lo comprai immediatamente”. Da quel momento l’innamoramento è stato totale: per il musicista e per la persona. “Era sarcastico, dissacratore, volgare, pirotecnico. Ma sempre con rigore: provava tutti i giorni nove ore al giorno e altrettanto pretendeva dai suoi collaboratori. Scriveva musica quasi impossibile da suonare perfino per se stesso, ed era un autentico dittatore con i suoi musicisti. Il risultato finale, però, era sorprendente”.
Era anche un isolato, Zappa, o come dice Bollani “uno che si faceva i fatti suoi”. Ma che sindacava, e pesantemente, su quelli degli altri: “Prendeva in giro gli stereotipi del rock, non tanto musicali quanto comportamentali: le mode, gli atteggiamenti esteriori. Era perfido al punto di proporre a Bob Dylan di fare un disco insieme, ma a patto che lui, Zappa, scrivesse le parole e Bob la musica!”. Un autentico insulto al poeta menestrello. Parlerebbe per ore, Bollani, di Zappa. Ma il pianoforte è lì, e il demone del canto (la sua vera passione fin da quando era bambino) lo prende mentre intona Bobby Brown goes down, traccia numero 3 dell’album, una sorta di manifesto della poetica zappiana: l’incarnazione del sogno americano, il ragazzone che va al college, il più figo, bramato dalle cheerleader, ma che da “fantastic” finisce ”sexual spastic”.