Marco Gaspari è un cuoco abruzzese di 31 anni. Due anni fa ha aperto il suo ristorante, "300°", nella capitale della Corea del Sud. E ha già ammortizzato l'investimento iniziale
“Perché me ne sono andato all’estero? Fare lo chef in Italia è una scelta sacrificata, si lavora spesso in nero e con paghe da fame, orari impossibili. Quando vai fuori, sai a cosa vai incontro, che sarà dura; però sei anche consapevole di poter beneficiare di orari di lavoro normali, paghe migliori e proporzionate al tuo ruolo, una rete di diritti”. Marco Gaspari è un cuoco abruzzese di 31 anni, diplomato alla scuola alberghiera di Villa Santa Maria, fucina di professionisti dei fornelli disseminati nel mondo. Cresciuto a Montesilvano, in provincia di Pescara, dal 2009 si è trasferito a Seul: tre anni di manodopera qualificata in locali altrui, come chef, “e in Corea del Sud si ragiona ancora in termini di assunzioni a tempo indeterminato”.
Due anni fa Marco ha aperto un ristorante tutto suo nella cablatissima capitale della Corea del Sud. Ma ha cominciato dalla vecchia Europa: “Vivo all’estero dal 2004. Ero giovanissimo, lavoravo da tre anni in alberghi italiani, ma avevo già deciso di fare le valigie: prima ho trascorso due anni in Inghilterra, a Preston; poi altrettanti a Parigi, sempre in ristoranti italiani, in qualità di chef di partita, secondo chef, chef. Esperienze formative e brillanti: oggi parlo sia l’inglese che il francese, ma l’Europa è in crisi e le economie, le società del futuro sono asiatiche”.
Il locale che gestisce a Seul si chiama “300°”, come la temperatura del forno per cuocere la pizza. “Ho trovato il luogo giusto, e dopo un mese ho fatto l’apertura. In Italia sarebbe stato irrealizzabile, sarei ancora lì in attesa di inaugurare”. Solo trenta giorni per aprire: “In un mese ho ottenuto i documenti e le licenze necessarie e questo è avvenuto gratis. In Corea del Sud la burocrazia è veloce. Le regole di avvio di un’attività esistono, ma sono cinque o sei in tutto, e non costano nulla”.
L’investimento iniziale è stato già ripagato: “L’ho ammortizzato subito, e oggi ho un buon tenore di vita”. Il suo ristorante “300°” procede a vele spiegate, al punto che una popolare trasmissione televisiva nazionale gli ha dedicato un’intera puntata: “Cucino cose semplici, che in Corea del Sud non si erano mai viste, e la reazione è stata entusiasta. Ho portato a Seul la porchetta abruzzese, e per primo in Corea la pizza al metro; e poi lo street food all’italiana, le polpette, gli arancini. Importo il più possibile materie prime dalla nostra penisola. E i clienti, di ogni fascia sociale e d’età, se ne vanno leccandosi i baffi, scattando anche foto e selfie. Il cibo italiano, quello vero, piace tanto da queste parti, e non era scontato”.
Marco Gaspari è andato a vivere e lavorare a Seul, “una metropoli caotica con 13 milioni di abitanti, che raddoppiano se si considera l’area metropolitana”, anche perché affascinato da sempre dall’Oriente. E ha trovato una sorpresa: “Qui hanno il mito degli italiani”. In che senso? “Si rifanno al nostro stereotipo, ma nella sua accezione più nobile. L’italiano romantico, poeta, creativo. Non sono arrivati fin qui, invece, i venti putridi della corruzione e della malapolitica tricolore”. Ma “intendiamoci, la società sudcoreana è molto competitiva e la nostra retorica patriottica vuole che gli italiani migrati all’estero siano tutti esportatori dell’eccellenza italiana. Non è così”.
Marco non ha nessuna intenzione di tornare in Italia. “In ferie sì, per rivedere gli amici e la famiglia. Ma rientrare in pianta stabile, quello no. Resisterei un mese. Mi sentirei soffocare. Al limite mi trasferirei in un altro Paese straniero. Per il resto c’è Skype”. Dell’Italia che s’è lasciato alle spalle segue con attenzione gli sviluppi politici, i “falsi movimenti, in Italia si cambia sempre tutto per non cambiare niente”. Gli mancano, però, “la bellezza dei nostri posti, la montagna abruzzese, gli amici, il bar di paese, la vita al rallentatore”.