“Felix qui potuit rerum cognoscere causas”
Virgilio
Conosciamo il verdetto della sentenza di appello del processo alla Commissione Grandi Rischi, ma le motivazioni usciranno entro febbraio. Dunque, per il momento non sappiamo perché gli scienziati condannati in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo siano stati assolti e De Bernardinis no (pena ridotta a due anni). Sarebbe sterile pretendere di precorrere i tempi. Per queste ragioni, il mio secondo post sull’Aquila non è una previsione ex ante delle valutazioni condotte dal giudice d’appello, ma un’analisi ex post dei non pochi punti critici ravvisabili, in punta di diritto, nelle motivazioni della sentenza di primo grado. Che poi almeno alcuni dei problemi che solleverò qui finiranno per trovarsi nelle nuove motivazioni è plausibile, ma non certo.
Tecnicamente parlando, il perno attorno a cui ruota l’intera vicenda processuale di primo grado in relazione al terremoto del 2009 all’Aquila è se esista e sia provabile il nesso eziologico tra il comportamento comunicativo della CGR e la scelta di 36 vittime di rimanere in casa la notte della scossa fatale.
Schematizzando:
CGR(messaggi) ➔ SOGGETTI (interpretazione intrapsichica) ➔ AZIONE( rimanere in casa) ➔ DANNO
Nel gioco delle parti tipico del rito penale, per l’accusa tale relazione causale è provabile e provata (vedremo a breve come), mentre per la difesa ovviamente non sussiste.
A complicare enormemente una questione già non semplice, il fatto che la relazione causale è di natura psichica, non fisica. Cosa si può fare per dimostrare con certezza assoluta che 36 cittadini aquilani avrebbero trascorso la notte fuori casa (verosimilmente salvandosi) se non fossero stati raggiunti dalle comunicazioni della CGR (che, poi, regolamento alla mano, quella riunione non era nemmeno una seduta ufficiale della CGR per assenza del numero legale)?
Insomma, qui parliamo di meccanismi comunicativi, e l’effetto di un’azione di tipo comunicativo sulla psiche del destinatario avviene in prima battuta a livello intrapsichico, cioè dentro la mente del soggetto stesso. Come tale, è impossibile da provare direttamente in un processo.
È proprio la tesi difensiva: siamo in assenza di una legge universale in grado di corroborare l’impianto accusatorio, tanto è vero che, di tutti i cittadini aquilani esposti agli stimoli comunicativi della CGR, “soltanto” 36 si suppone ne siano stati effettivamente influenzati. Il giudice, tuttavia, ribatte che la presenza di un numero di casi decisamente ridotto rispetto all’universo di riferimento non inficia l’impianto accusatorio; semmai, suggerisce che la relazione causale non sia deterministica (StimoloRisposta = 100% dei casi), bensì probabilistica. Può sembrare un fatto di poco conto per i non addetti ai lavori, ma in realtà questo assunto cambia tutto, contribuendo in maniera decisiva a orientare il corso degli eventi.
Ed è qui che entra in gioco il lavoro del consulente del PM, l’antropologo aquilano Ciccozzi, il quale fornisce elementi utili all’accusa per formulare il nesso causale di cui sopra, ricorrendo alla teoria delle rappresentazioni sociali di Moscovici (Motivazioni sentenza primo grado, p. 667 e segg.). Ciccozzi stesso riferisce al giudice di «aver circoscritto la sua analisi alla lettura dei verbali delle testimonianze raccolte nel corso dell’istruttoria dibattimentale». In altre parole, il suo lavoro si limita all’analisi documentale delle prove prodotte all’interno del processo in riferimento alle sole vittime, senza prendere in considerazione altri tipi di documenti né una popolazione più ampia.
In breve, i nodi critici del quadro indiziario costruito dall’accusa e accolta dal giudice di primo grado sono:
1)la teoria delle rappresentazioni sociali è trattata come una legge scientifica, ma non è in grado di accompagnarsi a un coefficiente probabilistico, non esiste un solo lavoro di Moscovici in cui la teoria della rappresentazioni sociali sia formulata come legge universale o probabilistica;
2)prima di utilizzare la teoria di Moscovici, dunque, occorreva raccogliere dati statisticamente rappresentativi di una popolazione di riferimento (quella aquilana). Si aggiunga che, perché risultassero validi al fine di avvalorare le tesi dell’accusa, tali dati andavano estratti nel breve lasso di tempo che è intercorso tra l’esposizione alle comunicazione della CGR e la scossa fatale. Dopo è tardi: i soggetti danneggiati sono morti e la disposizione mentale dei sopravvissuti è ormai irrimediabilmente segnata dall’esperienza del tragico evento (atteggiamenti, umori e memoria sono diversi prima e dopo uno shock, fa dunque differenza intervistare dei testimoni prima o dopo);
3) in assenza di un’indagine campionaria e di una teoria assoluta, l’alternativa (la cosiddetta “legge scientifica di copertura”), che si pretende abbia quantomeno valore probabilistico, è formulata a partire da 36 casi. Una sola vita ha valore inestimabile, chi lo nega è un barbaro. Sebbene l’ampiezza di un campione non dipenda dalla dimensione dell’universo di riferimento, ma dalla sua varianza (le oscillazioni presenti nella popolazione rispetto al parametro stimato) e dall’intervallo di confidenza che si vuole assumere, non c’è alcun modo scientifico per dimostrare che 36 casi siano un parametro statistico affidabile per una popolazione di oltre 70 mila abitanti;
4) i dati ricavati da questi 36 casi sono validati sugli stessi 36 casi. In buona sostanza, si costruisce una legge probabilistica muovendo da un numero troppo esiguo di casi e per di più la si valida su quegli stessi casi, per poi concludere che, guarda un po’, la legge così formulata calza a pennello al fatto in specie, quindi è attendibile. Il cortocircuito logico è talmente evidente da non richiedere altri commenti;
5) non è possibile “individuare quella condotta positiva, che, ove posta in essere, avrebbe evitato il prodursi dell’evento e poi ricostruire in via ipotetica il comportamento doveroso che sarebbe stato omesso dall’agente” (Bursese 2012, p. 8). Che, tradotto dal linguaggio giuridico-popperiano, significa che è impossibile determinare con certezza se un messaggio diverso e/o l’assenza di comunicazione avrebbe indotto le vittime a stare fuori casa quella notte, verosimilmente salvandosi.
Quanto detto è strettamente limitato alla dimensione penale, così come messa in forma dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ma non esime gli imputati da responsabilità etiche e sociali. Di cui discuterò nel terzo e ultimo post.
Ci tengo a ringraziarvi per i commenti e le discussioni, quasi sempre molto pertinenti e interessanti.
(Segue)