Renzi rovescia un altro tavolo. Tre giorni fa ha prima ribaltato quello sulla legge elettorale, ricompattando l’intera maggioranza e mettendo improvvisamente a rischio il patto del Nazareno (l’incontro con Berlusconi non ha chiarito bene come si comporterà Forza Italia). Ora rischia di perdere di nuovo per strada il Nuovo Centrodestra dopo che il Pd si è riunito e ha deciso che il Jobs act deve cambiare ancora. Meglio: l’articolo 18 deve cambiare ancora. Apriti cielo: Maurizio Sacconi ha cominciato a lanciare comunicati, ultimatum (“Così si rompe la coalizione”), richieste di vertici di maggioranza; Nunzia De Girolamo ha sottolineato che il Parlamento non è il luogo dove si ratificano le decisioni prese dal Pd. Tanto per rasserenare il clima il ministro per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi ha spiegato che il tempo dei vertici di maggioranza è finito, anche perché quello sulla legge elettorale di alcune notti fa ricordava molto le riunioni del pentapartito (a discuterne erano in 18). Così Sacconi e De Girolamo si sono precipitati a Palazzo Chigi, dove però Matteo Renzi non c’è: è in viaggio ufficiale in Romania. Incontrano il sottosegretario Luca Lotti e il responsabile economia del Pd Filippo Taddei. Graziano Delrio intanto dice: “La forma decisa mi pare molto buona, ci sono molti argomenti” perché la maggioranza resti insieme. Renzi invece replica da Bucarest: “Il primo gennaio entreranno in vigore le nuove regole sul lavoro: è un grandissimo passo in avanti. E’ tutto quello che è stato deciso nella direzione del Pd. Bene così, andiamo avanti”. E infatti Sacconi e De Girolamo mentre lasciano la sede del governo giurano: “La partita è tutta aperta, si tratta, è stato un incontro informale” avvenuto per “cortesia istituzionale”. Ma il premier rilancia: “la partita è chiusa, il Parlamento voterà nelle prossime ore e dal primo gennaio avremo chiarezza sulle regole”.
Sacconi e De Girolamo: “Non possono pensare che in Parlamento risolviamo i problemi della maggioranza e della minoranza del Pd”
L’accordo del Pd
Fin qui la cronaca. Cos’ha fatto saltare sulla sedia gli alfaniani? Il Pd, tutto unito, ha deciso che il testo della riforma del mercato del lavoro approvato dal Senato non va più bene. Un modo per i vertici del partito di tenere tutti insieme e evitare che la sinistra Pd trasformasse la commissione Lavoro della Camera in un Vietnam: ci sono 10 ex Cgil, tra cui il presidente Cesare Damiano. Se il testo fosse stato bucherellato di modifiche, dunque, in Aula il governo sarebbe stato costretto a porre la fiducia e questo avrebbe portato ulteriori scontri interni al partito. Invece è arrivato l’accordo, quasi in extremis, in una riunione alla quale hanno partecipato tra gli altri il capogruppo alla Camera Roberto Speranza, Taddei e lo stesso Damiano.
Sull’articolo 18 tutti d’accordo (nel Pd)
L’accordo prevede in sostanza che viene adottato il testo di un ordine del giorno della direzione del Pd. E quindi, per parlare più chiaro, nell’articolo 18 torna il diritto di reintegro sia per i licenziamenti discriminatori sia per quelli disciplinari (se ingiustificati). Il capogruppo Speranza, seguito da Damiano, arriva a dire addirittura che non ci sarà neanche il voto di fiducia perché “il Parlamento non è un passacarte e abbiamo dimostrato che incide”. In realtà il vicesegretario Lorenzo Guerini ridimensiona l’entusiasmo e non esclude che il governo ponga la questione di fiducia in Aula. Tuttavia chi voleva “aprire fronti nel Pd – afferma Guerini – ha avuto una buona risposta. Il partito dentro la sua espressione della commissione Lavoro ha saputo svolgere un lavoro serio, un confronto di merito” andando a “un punto condiviso che responsabilmente impegna tutti”.
Speranza: “Non sarà messa la fiducia”. Guerini: “Non è esclusa sul testo nuovo che uscirà modificato in commissione”
Il presidente Matteo Orfini parla di “accordo larghissimo” il cui “punto politico è l’articolo 18”. Per Alfredo D’Attorre, bersaniano, “il governo fa un passo indietro rispetto alla immodificabilità della delega lavoro”. “Questo è un fatto positivo – dice a ilfatto.it – è una vittoria di quanti in queste settimane hanno sostenuto che il parlamento non potesse essere espropriato dalle sue prerogative e fare una dialogo in bianco. Riguardo al merito si valuterà a partirà dalla quantificazione delle risorse aggiuntive per gli ammortizzare.
Ecco cosa cambia (e perché l’Ncd si arrabbia)
Per vedere quali saranno le “fattispecie” per cui si potrà puntare anche al reintegro per i licenziamenti disciplinari, bisognerà attendere i decreti attuativi del Jobs Act che comunque il governo sta già preparando per mantenere fede all’impegno di rendere operativa la delega già a inizio 2015. Sarà indicata una serie di casi specifici: tipico esempio, se un lavoratore viene licenziato con l’accusa di avere rubato ma l’accusa è falsa, avrà diritto a tornare al lavoro. Certo, proprio all’inizio di gennaio – come dice Renzi – sarà difficile essere pronti, perché in ogni caso i decreti delegati dovranno passare per i pareri delle commissioni parlamentari (comunque non vincolanti) che avranno 30 giorni per esprimersi.
Ma la scelta di inserire nel testo del Jobs act il riferimento specifico (ora assente) ai casi di reintegro è proprio quello che fa infuriare il Nuovo Centrodestra. Le modifiche concordate, sottolinea Damiano, non riguardano però solo “l’annoso problema dell’articolo 18”. Il testo sarà corretto, così come chiesto da diversi emendamenti già depositati, “anche su altri punti – dice Damiano – come i controlli a distanza” che riguarderanno solo gli impianti, o “le cure parentali” mentre non sarà toccato di nuovo il tema del demansionamento, “già modificato al Senato”. La commissione inizierà a votare già domenica 16, con l’obiettivo di chiudere entro giovedì 20, visto che il testo è atteso in Aula il 21 per arrivare al voto finale entro il 26 e lasciare posto così dal 27 alla legge di Stabilità. La delega dovrà poi tornare al Senato. Dopo le modifiche è possibile che sia alla Camera sia al Senato l’esecutivo blindi il testo con la fiducia, per raggiungere l’obiettivo di chiudere entro l’anno.
Gli “avvertimenti” di Scelta Civica e Udc
E infatti la questione sveglia perfino Scelta Civica: “E’ evidente che qualsiasi novità – dice Pietro Ichino – dovrà essere concordata tra tutte le componenti della maggioranza. Scelta Civica ribadisce, a questo proposito, la propria non disponibilità ad avallare decisioni che rendano meno chiaro e netto il senso e il contenuto della riforma. Ogni passo indietro equivale a rimanere in mezzo al guado; e questa oggi sarebbe la scelta peggiore che l’Italia possa compiere”. Non rinuncia a mettersi in evidenza l’Udc: “Il testo di riferimento per il passaggio in Parlamento – dichiara Antonio De Poli – non può essere un documento votato nella Direzione di un partito che per noi non vale nulla”.
Fassina: “Dobbiamo ancora valutare, non c’è ancora un testo”
Ma Stefano Fassina non si fida: “Non conosco i termini della mediazione. Non c’è ancora un testo” dice a ilfattoquotidiano.it. Piuttosto, aggiunge, “oggi il governo ha dovuto prendere atto e fare di conseguenza un passo indietro rispetto alla direzione di ieri. La fiducia su una delega in bianco era impraticabile”. L’ex viceministro dell’Economia, dunque, dice di dover “valutare. Non c’è ancora un testo. Oggi ci sono dei titoli. Voglio prima vedere le risorse destinate per gli ammortizzatori sociali, o come viene riordinata la parte dei contratti precari. Ma oggi interessa più il risultato politico”. Mi sta dicendo che oggi la minoranza ha segnato un goal contro Renzi? Fassina sorride e risponde: “Si è stabilito un corretto rapporto tra esecutivo e Parlamento”. E se Guerini conferma l’ipotesi di poter mettere la fiducia a Montecitorio l’esponente della sinistra Pd spiega che “un conto è mettere la fiducia sul testo che è uscito dal Senato senza far discutere Montecitorio, un conto è dopo una discussione in Commissione, e, soprattutto, dopo l’approvazione di alcuni emendamenti significativi in Commissione”.
(Ha collaborato Giuseppe Alberto Falci)