“In catena di montaggio, decine di migliaia di lavoratori. In riga come parole su un foglio. ‘Veloci, sbrigatevi!’ Sono in piedi tra di loro e sento le grida del supervisore”. Il 30 settembre 2014, a soli 24 anni, Xu Lizhi si è suicidato. Oltre a lavorare in fabbrica, Lizhi era un regolare collaboratore della rivista interna alla Foxconn di Shenzhen. Scriveva saggi, poesie e recensioni. I suoi versi, semplici e cupi, hanno trovato un pubblico più ampio solo dopo la sua morte. Sono stati i suoi colleghi a raccoglierli e a farli pubblicare sul quotidiano di Shenzhen, una metropoli della Cina meridionale da 15 milioni di abitanti. Le sue sono “parole che possono essere lette solo con il cuore dei lavoratori migranti”.
Shenzhen è la città simbolo del miracolo economico cinese. Trent’anni fa era solo un paese di pescatori di fronte alla colonia britannica di Hong Kong. Oggi è una delle città più ricche della Cina. Il pil procapite nel 2013 era di 12mila euro, con una crescita che si stima intorno al 13 per cento all’anno. L’età media non raggiunge i 29 anni e il 95 per cento della popolazione fa parte dell’esercito dei migranti che si trasferisce in città in cerca di un futuro migliore. Sono ambiziosi e non sopportano l’idea di tornare a casa a seguito di un fallimento. Ma, come ha scritto Xi Lizhi, “una volta che entri in fabbrica, l’unica scelta che ti rimane è la sottomissione”.
Sono i figli del controllo sulle nascite. Migranti di famiglia contadina che non sanno cosa significhi coltivare un campo. I genitori gli hanno pagato la retta scolastica fino a quando non sono stati bocciati e il loro percorso di studi si è interrotto. Così si sono ritrovati nei padiglioni di una fabbrica di una città sconosciuta. Oggi sono la componente principale della forza lavoro cinese.
Usciti dal rigido controllo del sistema scolastico, pensavano che il lavoro li avrebbe resi liberi. Ma la realtà li ha subito riportati con i piedi per terra. “Uno spazio di una decina di metri quadrati, angusto e umido. La luce del sole non entra neanche un giorno all’anno. Qui mangio, dormo, cago e penso. Tossisco, ho mal di testa, invecchio. Mi ammalo, ma non muoio”. Il resto è catena di montaggio, anche 12 ore al giorno nei picchi di produzione.
Il tempo libero si riduce a birre, sigarette, messaggi, giochi online e internet. Sognano altro, magari di aprire un negozio, magari di fare affari online. Lizhi aveva provato a farsi assumere nella biblioteca della fabbrica. E poi in qualche libreria della città. Non c’era riuscito. Così un giorno ha deciso di farla finita. “Lo dicono tutti. Sono un ragazzo di poche parole, non lo nego. Ma a prescindere da quanto parli, con questa società io sono in conflitto”.
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Il foglio davanti ai miei occhi si ingiallisce
Con una penna di ferro lo incido di nero tremulo
È il lessico dell’operaio
Fabbrica, catena di montaggio, altoparlante, cartellino, straordinari, salario…
Sono stato addestrato
Non so urlare né ribellarmi
Non so denunciare, né recriminare
Solo sopportare la stanchezza in silenzio
Quando sono entrato qui dentro
Volevo solo una grigia busta paga il dieci di ogni mese
Che mi regalasse una consolazione tardiva
Per questo dovevo smussare i miei angoli e moderare le mie parole
Rifiutare permessi, malattie o ferie
Rifiutare di arrivare in ritardo o di andare via prima
In piedi in catena di montaggio come [fossi fatto di] ferro
Le due mani [che si muovono] come [fossero] ali
Quanti giorni? Quante notti?
È stato così che ho cominciato a dormire in piedi
Xu Lizhi, 20 agosto 2011