Abbottonatevi ben stretti, combattenti e reduci: se lascerete soltanto un momento la vostra valigia (di ricordi) di là, dovrete trovare la pazienza di ascoltare Niente da capire senza malinconia, Il ’56 dentro a un twist, Natale come se fosse jazz-swing al Blue note, Un guanto che, basta voltarsi un attimo, e ti diventa una cavalcata a botte di batteria (come se i milioni di rose sul bagnasciuga fossero una prateria dentro una gigantesca centrifuga). C’è anche una roba simile al rockabilly, ma state sereni (#reducestaisereno): è riservato a una canzone relativamente recente e che solo i veri mujaheddin conoscono, Finestre rotte. Quella certa trasformazione del suono che Francesco De Gregori ha iniziato tra la fine degli anni Novanta e le tournée dei primi Duemila, atterra dentro VivaVoce. 28 canzoni più o meno famose e più o meno amate, che sono state più o meno riarrangiate. “Un pezzo meno conosciuto come Un guanto o uno famoso come Generale hanno pari dignità in un doppio cd che sognavo da tanti anni”. De Gregori non nasconde più né Dylan né Cohen: tra le 28 c’è una versione di Fiorellino sul blues strafatto di Rainy Day Women ♯12 & 35 e una cover del canadese, Il futuro. A prescindere da gusti, giudizi e pregiudizi, per intanto, VivaVoce è stato primo nella classifica di iTunes per i primi tre giorni.
Il che si presta al primo capo d’imputazione: “Aaargh! E’ un’operazione commerciale!”. De Gregori ci è abituato: glielo dissero perfino quando pubblicò Il fischio del vapore nel 2002 con Giovanna Marini, non proprio il massimo dell’acchiappafolle: dentro, insieme ad altri canti popolari come Il tragico naufragio della nave Sirio e Il feroce monarchico Bava, c’era anche Bella ciao. Era nella versione originale delle mondine, ma tanto bastò per far dire che l’album sarebbe andato a ruba perché c’era un sacco di voglia di sinistra in giro, visto che l’Ulivo aveva appena perso malissimo le elezioni dopo aver candidato Rutelli contro Berlusconi e il centrodestra era quello più forte di sempre e cominciava a mettere mano all’articolo 18. (Il sottinteso a questo punto è che se fosse vero gli Inti Illimani dovrebbero subito correre a pubblicare un greatest hits da far uscire in queste settimane). Per giunta De Gregori si autoproduce con la sua Caravan. “Oggi – ha detto – per fare uscire un disco si deve combattere, non c’è nulla di facile. E non parlo del punto di vista artistico, ma di quello imprenditoriale: il mio album l’ho fatto da solo e ora esce con la mia casa discografica. Nessuno lo dice, ma sono ‘indie‘, sono un indipendente anch’io”.
“Il mio album l’ho fatto da solo e ora esce con la mia casa discografica: nessuno lo dice, ma sono ‘indie’ anch’io”
Secondo capo d’imputazione. Questo disco arriva dopo 14 album live e una mezza dozzina di raccolte, più Mix che era un po’ l’uno e un po’ l’altro. E ora che esce questo restyling di canzoni vecchie e meno vecchie c’è chi si affanna a chiedere: ma non è che De Gregori non ha più niente da dire? E non è che non è più in grado di tirare fuori capolavori come La donna cannone e canti laici come Generale? O robe un po’ mitologiche come Viva l’Italia? L’arte non è biologia né matematica e dire vero o falso è da pazzi. Resta che negli ultimi 13 anni il Principe ha buttato fuori 5 album di inediti con un sacco di roba con la quale ha provato a raccontare di nuovo le brutture dell’Italia (Tempo reale, Vai in Africa, Celestino) e del mondo (Il vestito del violinista, Il panorama di Betlemme), la propria ammirevole arroganza (Guarda che non sono io), un altro po’ di se stesso (L’infinito, Per le strade di Roma), i sentimenti quelli forti (Cardiologia, Sempre e per sempre), alcune storie immaginate (Gambadilegno a Parigi), altre quasi vere (Il cuoco di Salò). Canzoni – è però la contestazione – che non hanno lasciato il segno come un tempo sono invece riuscite Alice, Rimmel, Generale, Pezzi di vetro (e dai e dai con il solito menù degli ultimi trent’anni) che erano un po’ più qualcosa e un po’ meno qualcos’altro. Senza ricordare – tra l’altro – che proprio mentre scriveva le tanto amate Alice e Rimmel, c’era qualcuno che si presentò al PalaLido e “processò” De Gregori su “pubblico palco” perché voleva già allora cambiarlo, modificarlo, spogliarlo e rivestirlo à la page. Lui che era un giovinetto rimase un po’ traumatizzato. Il rischio è che il moderno PalaLido – per altri motivi e con altri intenti, magari più nobili – sia la rottamazione per forza, la renzianizzazione anche per la musica. Se non raggiungi un certo risultato (fissato da chi?), allora ritirati. Datti all’ippica. Se non piaci, nasconditi. Lui, che ora è un signore di 63 anni con due gemelli di 36, al contrario di allora sembra più o meno fottersene.
Terzo capo d’imputazione: che palle questa fissa di cambiare in continuazione l’arrangiamento alle canzoni. Sì, De Gregori sfida di nuovo combattenti e reduci che vorrebbero Alice ingessata al 1973, Generale in una teca al museo egizio e magari lui stesso fulvo, bello e musagnone come una volta. Questa volta l’affronto alla sua gente non arriva in un concerto, come ama fare quasi sempre, ma lo mette tutto in un disco. Qui dentro c’è una grossa quantità di suono e non ci si crede quando De Gregori parla, anche per questo album, di una roba venuta fuori improvvisando del tipo “vabbè, suoniamo e vediamo come viene”. Cori, fiati, archi, piano e suono elettrico fanno passare da un genere all’altro come se ci si trovasse in un luna park in cui si può scegliere il gioco che più piace. Sembra di sentire De Gregori e i suoi che si divertono, a prescindere dal testo, che sia beffardo come Titanic o sacrale come Stelutis alpinis.
Gli hanno sempre detto un po’ che è riservato e un po’ che è antipatico e arrogante. Ma semplicemente sembra quasi che una volta di più si voglia scrollare di dosso l’abito che chi lo segue vuole mettergli addosso: “Guarda che non sono io la mia fotografia” canta in una canzone dell’ultimo album di inediti: “Se credi di conoscermi non è un problema mio”. D’altronde, come a Sordi in quel film gridavano “Facce Tarzan, te demo una sigaretta”, non manca mai chi esprime – cocciutissimo – il suo desiderio come se fosse al pianobar. “Pezzi di vetro!”. “Atlantide!”. “Rimmel!” gridano tutte le volte da sotto. Liberissimi. Lui la fa, Rimmel, ma ogni volta in modo diverso (per un certo periodo era un reggae).
E qualcuno di quelli che ascoltano allora lo prende come uno schiaffo. Come se il pagamento del biglietto o del disco dovesse costringere chi sta sul palco a una continua replica di se stesso. “Cambiare le canzoni? Non è una scelta – disse in un’intervista del 2006 – è una cosa che viene naturalmente, ma penso che voi possiate capire: le canzoni sono vive, io sono vivo e le cose vive cambiano. Fare un concerto non è restaurare un tabernacolo ogni sera, è giocare con la musica, che noi facciamo anche improvvisando. L’improvvisazione è fondamentale nella musica moderna e l’improvvisazione a volte non consente al pubblico di cantare ma chi se ne frega. Cioè: voi potete anche cantare e mi va benissimo, anzi a volte è emozionante, ve lo giuro. Ma nessuno deve pretendere che io canti come voi cantate”.
Conosce talmente il suo pubblico, quello che si incazza quando trasforma Buonanotte Fiorellino in un blues, che sul suo sito per presentare l’album parte proprio da qui. “So che in molti sono affezionati a quelle che chiamiamo le ‘versioni originali‘ delle canzoni che amiamo, anche a me capita a volte con le canzoni degli altri: un certo suono in un punto, una certa inflessione della voce. Qualcosa che è scolpito nella nostra memoria di una giornata passata, di quando magari eravamo molto diversi, più giovani”.
Quello che senza nemmeno volerlo De Gregori ancora una volta arriva a far capire è che in quarant’anni si cambia e non si può essere sempre identici a se stessi: pioggia e vento cambiano la faccia alle persone. “Questo nuovo disco non sottrae nulla al passato – continua – Non è come se, diciamo, Picasso si aggirasse di notte a casa di quelli che hanno comprato i suoi quadri e glieli ritoccasse contro la loro volontà cambiando un segno o un colore qua e là, o magari anche solo sostituendogli la cornice. Io non vado a casa di quelli che conservano Rimmel o La donna cannone sotto al cuscino e glieli sostituisco di nascosto: VivaVoce è solo musica in più”.
Questo disco non sottrae nulla al passato: non è come se Picasso si aggirasse di notte a casa di quelli che hanno comprato i quadri e li ritoccasse
Insomma: ancora una volta non c’è niente da capire. Sarà banale, ma De Gregori se la canta e se la suona come ha sempre fatto, sbattendosene di cos’è stato in passato, di cosa dovrebbe rappresentare e del “suo” pubblico. Così come andò alle urne e votò Monti (ma si seppe dopo), ora rifà La leva calcistica, La storia, Caterina e La ragazza e la miniera nel modo in cui gli piacciono di più oggi. Chi non le vuole sentire, è libero di prendersi l’album della “Pecora” (del quale peraltro De Gregori ha pochissima stima) e di spupazzarselo per tutto il tempo che vuole. Oppure può succedere come a volte è successo negli ultimi trent’anni: che qualche padre – magari schifato – abbandona il disco sul tavolo (o Spotify acceso), il figlio lo ascolta incuriosito dopo aver spento gli One Direction e da lì diventa la quarta generazione che si presenta, un po’ emozionata, sotto al palco del Principe. E allora al papà schifato a quel punto tocca di andare.