E mancherà Stefano Fassina, pure formalmente bersaniano, ieri a Milano proprio per la manifestazione della Fiom contro il ddl sul lavoro.“Per esprimermi sul nuovo testo aspetto di vederlo” spiega. Ma la frattura resta evidente. In meno di un anno, l’area che nelle primarie appoggiava Cuperlo contro Renzi è deflagrata in almeno tre fazioni. L’ex candidato alla segretaria è (quasi) sull’Aventino, Bersani e i suoi sono ostili al premier ma vogliono trattare, Matteo Orfini e i Giovani Turchi sono l’ala sinistra del renzismo. Sulle barricate ovviamente anche Massimo D’Alema, che vorrebbe una contro-opa sul partito. Ma che oggi assomiglia a un generale a corto di truppe. Infine, Pippo Civati, che lavora a un’alleanza con Sel, Cgil e movimenti. È la mappa di quel che resta alla sinistra di Renzi. Divisione dopo divisione.
Un turco come presidente. A Europee appena stravinte, Renzi ridisegna la gerarchia del Pd. Il 14 giugno l’assemblea dem elegge come presidente Matteo Orfini a grande maggioranza (690 sì, 32 astenuti). Teoricamente sarebbe una carica per la minoranza, di fatto è una cannonata agli oppositori. Orfini, archiviate le primarie, è presto entrato nell’orbita renziana. Non a caso Cuperlo avrebbe voluto alla presidenza Nicola Zingaretti, ma Renzi ha risposto picche. I civatiani si astengono in blocco. Non votano anche diversi bersaniani, come il deputato Alfredo D’Attorre: “Scegliendo Orfini si è andati nella direzione di un accordo con le correnti per premiare chi è entrato nella maggioranza”. Il segretario ha ufficialmente reciso un pezzo di sinistra.
Caos in trincea. Il 29 settembre l’opposizione e Renzi se le danno in diretta tv, nella direzione del Pd sul Jobs act. Tema caldissimo, le modifiche all’articolo 18. Il segretario alterna bastone e carota: “Le mediazioni vanno bene, ma i compromessi non si fanno a tutti i costi”. Da sinistra monta la bufera. Bersani sorprende: “Noi andiamo sull’orlo del baratro non per l’articolo 18 ma per il metodo Boffo”. D’Alema morde: “È un impianto di governo destinato a produrre scarsissimi effetti, meno slogan e meno spot”. Ma sull’ordine del giorno l’opposizione si spacca. Votano contro Civati, il lettiano Francesco Boccia, Cuperlo, Fassina, Bersani. Undici gli astenuti, tra cui Roberto Speranza, prima fila di Area riformista. I bersaniani “governativi” tolgono la gamba. E l’ordine del giorno passa con 130 voti (l’80 per cento). Renzi se la ride con i suoi: “Li abbiamo spianati”.
Astenuti e mazziati. A inizio ottobre il Jobs act approda in Senato. Il premier non si fida e blinda il testo con la fiducia. Le minoranze interne digrignano i denti ma alla fine votano compatte per il sì. Fanno eccezione tre civatiani, Felice Casson, Lucrezia Ricchiuti e Corradino Mineo, che escono dall’aula prima del voto. Il compagno di cordata Walter Tocci invece dice sì, ma annuncia le dimissioni. I renziani Guerini e Giachetti minacciano sanzioni (senza sviluppi), ma quel che conta è che nel Pd si è consumato un altro strappo definitivo. I civatiani sono in guerra, bersaniani e cuperliani hanno abbassato le armi.
Piazza contro Leopolda. Il 25 ottobre è sfida incrociata di numeri e slogan. La Cgil riempie piazza San Giovanni a Roma, Renzi celebra la sua quinta Leopolda a Firenze. E le minoranze tornano a dividersi. Bersani se ne resta a casa, come Speranza e sodali vari. D’Alema è fuori Roma. Cuperlo, Civati e Fassina invece corrono nella piazza rossa, assieme a Rosy Bindi e bersaniani inquieti (D’Attorre). Poi sono altre polemiche. Renzi nomina sottosegretario Paola De Micheli, fiaccando il gruppetto lettiano. Si trova una mediazione tra bersaniani e il renziano Taddei sul Jobs act (reintegro per licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare). Ma Civati la ripudia, Cuperlo pare contrario, la Bindi avverte: “Non mi piace molto”. Tante voci, tante minoranze.
Da Il Fatto Quotidiano del 15 novembre 2014