In quell’intercapedine tra il vedere ed il non vedere, in quella crepa che corre tra la luce ed il buio, in quella penombra che è epifania e solstizio, esiste una stanza dei miracoli, quasi collodiana, che permette di realizzare, a costi interiori altissimi, il sogno di chi non ha mai potuto gustare i colori, di chi non ha mai potuto azzannare il verde del prato, affrontare il blu del mare, annaspare l’azzurro del cielo. “Cecità” di Saramago può darsi sia stata un’idea, uno spillo, uno spunto per la nuova produzione di Pontedera Teatro, “Alla luce”, firmata dalla penna proficua e prolifica di Michele Santeramo, drammaturgo pugliese della compagnia di Andria Teatro Minimo, e dalla regia di Roberto Bacci. Titolo che sa di biblico, evangelico ed apostolico, con venature magiche ed esoteriche (ci sono molte analogie con il precedente testo di Santeramo, “Il guaritore”, che abbiamo recensito sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, lunedì 10 marzo 2014). Si intrecciano due coppie ed un giocoliere-presentatore-imbonitore mefistofelico, croupier secondo la dicitura visto che le carte sono il tema centrale, le carte da gioco per scegliere e selezionare e quelle con i peccati-sentimenti-punizioni per colpire gli altri (grandi carte meravigliose 10×20 cm, disegnate da Cristina Gardumi, gioco da tavolo per la platea).
Due coppie: due fratelli molto dissimili, fisicamente e come concezione del mondo, e marito e moglie che si portano addosso il fardello di un bimbo morto. Sono lì, in questa stanza cercando la bacchetta magica, la pozione, quel tocco che doni loro la cosa più preziosa: la vista. Nell’ora e mezza gli incastri e le storie, visto anche il gioco al massacro che il Pifferaio (il suo abbigliamento ricorda vagamente anche un domatore di fiere ferite) che mette gli uni contro gli altri per vedere fino a dove sono disposti a spingersi per ottenere egoisticamente il ritorno alla luce, si sommano e si avvolgono, diventano nebulose colme di appoggi e di appigli ma anche di zone d’ombra che si spandono in quella lacrimosa parentesi del paranormale, del metaforico, del simbolico, del metafisico. Il vedere ed il non vedere trascendono dai fatti ma allo stesso tempo il realismo di occhiali neri e bastoni bianchi è lampante.
Una messinscena totalmente al buio, per la platea, come fu per il “Molly Sweeney” di Andrea De Rosa, con Umberto Orsini, avrebbe aperto più varchi nel solo ascolto di una vicenda non da vedere con le retine ma da accogliere origliando. I due fratelli che dopo aver riacquisito la vista non sembrano più consanguinei e con battute sibilline instillano il dubbio sull’effettiva parentela, il grosso nodo del figlio morto, ucciso dalla madre, e non è chiaro se perché presentava lo stesso problema fisico di padre e madre, cioè era cieco, oppure perché la donna era amante del croupier. Punti interrogativi che si assommano, tra incubo e tangibilità, su quel filo in equilibrio precario tra il coinvolgimento e la distanza, il vortice e la repulsione, la credenza e l’infattibilità della vicenda. Santeramo ha nelle corde sapienti (anche Premio Riccione) il mistero, l’irrisolto, il fumoso del non detto, dell’indicibile ma, allo stesso tempo, vuol chiudere le parentesi (qui troppe) aperte, cercare una definizione, trovare le soluzioni, portare a compimento ogni linea dei personaggi. Che è contraddittorio, disarmante.
Le carte alle quali i giocatori, non dostoeskiani, si rimettono è soltanto una trovata per l’escamotage delle pene da infliggere ai commensali di un banchetto dove il solo capocompagnia può ridere e giostrare a proprio piacimento le sorti dei convenuti. In definitiva quell’antro dove si può sperare alla risoluzione del grande problema che assilla ciascuno di loro è l’anticamera del trapasso, l’ultimo step di uomini piccoli, miseri e biechi che come Icaro hanno chiesto troppo a loro stessi ed al destino e per questo saranno puniti da un Dio rappresentato da questo luciferino Mangiafoco. A tratti viene in mente il libro noir (poi divenuta anche pellicola) di Carlo Lucarelli “Almost blue”, soprattutto nello splatter finale.
Ma potremmo trovare anche sponde nel Mito, al sapor di Magna Grecia, per giustificare meglio l’ammasso smisurato e l’effluvio di segni disseminati nel testo e nella regia: la donna assassina (Silvia Pasello sempre compassata e misurata) potrebbe essere Medea, o una delle Parche, o una Arpia, fino a divenire Edipo che si trafigge le pupille, il croupier (l’attore rumeno Sebastian Barbalan ha più la fisicità di un puk-folletto che di un demone diabolico) è Cassandra che dice la verità ma non viene creduto, tutti sono Tiresia, il fratello ingenuo (Michele Cipriani, ben incarna l’ansia e la vulnerabilità del soggetto) potrebbe somigliare a Epimeteo (“colui che riflette in ritardo”), maldestro per eccellenza, consanguineo appunto di Prometeo (Francesco Puleo qui meno fisico e trascinatore di altre precedenti prove, leggermente con il freno a mano, solitamente è suo il ruolo del Master), fino al marito tradito-Tazio Torrini (perde nel confronto con la ferocia scenica della Pasello, contenuto, ma voce di rara intensità), novello Agamennone. Se il riuscire a vedere non ci permette di vedere fino in fondo, è questo il dilemma amletico.
Altre repliche: fino al 9 novembre al Teatro Era, Pontedera, 6 e 7 marzo 2015 a Livorno, 20 e 21 marzo Scandicci.