Toscana: terra d’elezione per i dadi
Qualunque sia il numero di dadi da utilizzare per dadeggiare (Francesco d’Alberti di Villanuova, Dizionario universale critico enciclopedico della lingua italiana, Lucca 1797, vol. II, s. v.) il gioco dei dadi permeava, fin dall’antichità, tutte le classi sociali: «Se il diluvio universale, assieme all’umanità, non avesse distrutto tutti i monumenti storici del tempo compreso tra Adamo e Noè, probabilmente troveremmo qualche prova o qualche indizio sufficienti ad avvalorare la credenza, che i primi abitatori della terra giuocavano coi dadi da mattina a sera»
Del gioco dei dadi, per rimanere in Toscana, avrebbe poi disquisito Galileo, in un brevissimo scritto (Sopra le scoperte dei dadi), a vantaggio dell’esperto giocatore di dadi – forse il Granduca di Toscana, che glielo avrebbe commissionato – che avesse voluto calcolare «tutti i vantaggi per minimi che sieno delle zare, degl’incontri, e di qualunque altra particolar regola, che in esso giuoco si osserva». In quel trattatello, d’incerta datazione (chi lo vuole composto nel 1596, chi lo attribuisce agli anni fra il 1612 e il 1613), lo scienziato avrebbe fornito una spiegazione delle maggiori probabilità di uscita di un certo numero:
«Che nel gioco dei dadi alcuni punti sieno più vantaggiosi di altri, vi ha la sua ragione assai manifesta, la quale è, il poter quelli più facilmente e più frequentemente scoprirsi, che questi, il che dipende dal potersi formare con più sorte di numeri: onde il 3. e il 18. come punti, con tre numeri comporre, cioè questi con 6.6.6. e quelli con 1.1.1 e non altrimenti, più difficili sono a scoprirsi. […] Tuttavia ancorché il 9. e il 12. in altrettante maniere si compongano in quante il 10. e l’11. perloché d’equal uso devriano esser reputati; si vede non di meno, che la lunga osservazione ha fatto dai giocatori stimarsi più vantaggioso il 10. e l’11. che il 9. e il 12».
La questione, già affrontata dal matematico Girolamo Cardano (1501-1576 ca.), che fu anche giocatore d’azzardo, in un’opera che sarebbe uscita postuma (Liber de ludo aleae), sarebbe stata ripresa da Blaise Pascal e Pierre de Fermat.
Santi contro “dadaiuoli”
Lungo lo stivale, per secoli, è stato tutto un fiorire di proibizioni contro il gioco dei dadi. Se nell’antica Roma, fin dall’età repubblicana, lo si poteva praticare solo durante le feste dei Saturnali, nel IV secolo sant’Ambrogio ammonisce i fedeli perché non arrivino a giocarsi a dadi la propria abitazione: «Non adiudices domum tuam ad ludum aleae» (De Nabuthae historia). Il vescovo di Milano affronta il tema anche altrove (De Tobia), e un catecheta africano di identità sconosciuta e più o meno a lui contemporaneo, forse vescovo a sua volta, ne tratta nel De aleatoribus, la «più antica testimonianza a noi pervenuta di catechesi popolare in latino» (Ambrogio di Milano, De Nabuthae historia, a cura di Stefania Palumbo, Bari 2012, p. 154):
«Che il gioco d’azzardo fosse, in questo periodo, particolarmente in auge è testimoniato dal fatto che nel concilio di Elvira, tenutosi in Spagna nella provincia Betica, presumibilmente tra il 300 e il 303, e al quale parteciparono i rappresentanti delle cinque province iberiche (Gallaecia, Carthaginensis, Tarraconensis, Lusitania, Baetica), vengono presi provvedimenti disciplinari contro i giocatori di dadi: il canone 79, ad esempio, vieta il gioco a dadi per denaro e stabilisce che il giocatore venga scomunicato per un anno e riammesso ai sacramenti solo dopo sincero pentimento e rinuncia definitiva al gioco» (ibid.).
La conclusione alla prossima puntata.
di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani