Storico della musica, Guido Zaccagnini ha tradotto e curato un testo sacro come La Generazione Romantica di Charles Rosen. Ha diretto la prima esecuzione mondiale delle composizioni di Friedrich Nietzsche collaborando, come pianista, con il complesso Spettro Sonoro. Ha composto colonne sonore per film come Roma, Paris, Barcelona (Paolo Grassini e Italo Spinelli) e musiche originali per la televisione: Ultimo minuto, Geo e Geo, Il decalogo dei Taliban.
Come critico musicale scrive per numerosi quotidiani, riviste specializzate, settimanali, oltre a condurre su Rai Radio 3, programmi di divulgazione dedicati soprattutto ad eventi musicali. Attualmente è docente di Storia della musica presso il Conservatorio di Santa Cecilia. Poche settimane fa, ho avuto occasione di incontrarlo a Roma.
Nel descrivere l’odierno panorama musicale, Zaccagnini propone una suggestiva analogia con l’antico Egitto. Tra la morte di un Faraone e l’avvento di una nuova dinastia, esisteva in quel paese un periodo di interregno, chiamato “periodo intermedio”: un lasso di tempo in cui il potere centrale si dissolveva favorendo un grande caos in cui leggi, ruoli, codici, venivano ignorati o addirittura sovvertiti. Questa, a suo modo di vedere, pare essere la fase che la musica, più di altre arti, attraversa oggi.
Il secondo Novecento è di sicuro un periodo caratterizzato dalla dissoluzione dei linguaggi, dalla frantumazione delle forme e dalle sperimentazioni più estreme. Tutto ciò non poteva che generare un collasso di comunicazione tra artista e pubblico. In musica, ricorda Zaccagnini, si è passati dal significato, al significante. L’oggetto di interesse, non è più il rapporto tra opera d’arte e pubblico (il significato e la percezione dell’opera passano in secondo piano). Ciò che diviene centrale, è il rapporto tra opera ed autore, o tra opera e opera, che assume così un valore che il professore definisce “indipendente dal dato della globalità”. Non si tratta di giudicare gli esiti artistici di un cinquantennio che ha prodotto cose molto brutte, ma anche molto belle; tuttavia, è del tutto evidente che, se il presupposto dell’artista non è più quello di incontrare i favori di un pubblico (qualunque esso sia), è inevitabile che il pubblico si defili.
Per chiarire le cose, aggiunge lo storico, è giusto sottolineare che la musica non sia affatto un linguaggio universale. Quest’arte è a tutti gli effetti un codice culturale che, per essere compreso, ha bisogno di una base condivisa tra opera e pubblico. D’altronde, da una parte sembrano oggi latitare figure carismatiche in grado di calamitare gli entusiasmi e di indicare una “via nuova” per la musica; dall’altra, non si capisce proprio come l’odierna società di massa possa esprimere prima, e sostenere poi, figure simili…
Nell’Ottocento, ad esempio, moltissima musica era scritta per intrattenimento domestico: riduzioni per pianoforte di opere note, romanze e lieder (canzoni) erano all’ordine del giorno. C’era, come dire, un pubblico in grado assorbire una produzione che, oltre a svolgere un ruolo di intrattenimento, aveva anche una funzione educativa. Qualcuno potrebbe asserire, sbagliando, che la cosa riguardasse solo poche famiglie borghesi. Ma allora, come spiegare un popolo che alla morte di compositori come Beethoven, Wagner ne salutava i feretri con adunate oceaniche che oggi sarebbero inimmaginabili per i loro omologhi?
Da appassionato di musica leggera qual è, il professor Zaccagnini mi conferma che la situazione, anche in quest’ambito, non lo esalta particolarmente. In lui però, non v’è traccia di quell’atteggiamento un po’ paternalistico – o tempora o mores – col quale i “padri” sanciscono la definitiva deriva dei costumi. Tralasciamo il fatto che la musica leggera dei suoi anni (periodo oggettivamente irripetibile) annoverava personaggi del calibro dei Pink Floyd, Beatles, Bob Dylan, King Crimson, Genesis, ecc. In quegli anni però, era in uso scrivere ed ascoltare anche brani di otto, dieci, quindici minuti, canzoni con evoluzioni interne che, in molti casi, non avevano nulla da invidiare a generi musicali più strutturati, vere e proprie suites.
Oggi invece, siamo abituati generalmente a sentire (e non certo ad ascoltare) brani di due, tre minuti, in cui ogni elemento è previsto in funzione di una fruizione rapida, efficace, basilare e assolutamente non duratura (un prodotto deve infatti scadere presto per poter vendere quello nuovo). Chi non si uniforma a questo modello, è escluso dal circuito produttivo. Fin qui, volendo si potrebbe anche dire “nulla di nuovo”.
La tendenza preoccupante però, è che tutto ciò sembra avvenire senza nessuna opposizione da parte degli artisti stessi (contestatori per natura) che paiono nascere già pronti e felici di stare in queste gabbie. Anche quei personaggi che si vorrebbero proporre come alternativi, o addirittura di rottura, seguono pedissequamente lo stesso schema della musica che pretenderebbero di contestare. Cosa c’è infatti di rivoluzionario in un rapper che urla contro il sistema condensando la sua indignazione all’interno di un pezzo di tre minuti, trasmesso da tutte le radio ufficiali e magari prodotto e distribuito dalla Warner Bros? Altra cultura, mi ricorda il professore, quella in cui Bob Dylan, minacciando di andarsene, si imponeva sulla propria casa discografica al fine di scrivere brani della durata che preferiva…
Inoltre, dice, esiste un effetto di omologazione e decontestualizzazione per cui la musica tutta, è assorbita indistintamente come suono. Questo, soprattutto a causa del fatto che molti di noi, ne fruiscono ormai (spesso passivamente) attingendo esclusivamente a quell’immenso database virtuale che è la rete. Un luogo in cui, Bach e gli One Direction, Orff e Tiziano Ferro, Vivaldi e Dj. Fargetta sono percepiti sullo stesso piano e catalogati semplicemente come musica…
Al di là delle considerazioni estetiche, si rischia così di prescindere quasi totalmente, anche dalla funzione per cui queste musiche sono state scritte. Paradossalmente, nello stesso modo in cui Bach potrebbe oggi adirarsi perché una sua messa viene eseguita al Parco della Musica e non in una chiesa (magari durante la liturgia correlata), un autore di musica jungle potrebbe trovare poco sensato ascoltare un suo brano al di fuori di un rave party.
Secondo Zaccagnini però, la questione didattica sembra essere alla radice di molti dei nostri guai. Qui è il professore ad essere lapidario. In Italia, la musica si studia poco e male e il nostro Paese non sembra reggere il confronto con quelli più avanzati. Le cause, mi ricorda, hanno radici storiche molto profonde; basti pensare che “il grande” Francesco De Sanctis, uno dei più autorevoli e studiati storici della letteratura italiana, nonché ministro della Pubblica Istruzione, nell’affrontare la riforma della scuola, disse che era ora di abolire l’insegnamento del ricamo e della musica… Questo, suona come una sorta di peccato originale che ci portiamo dietro sin dalle origini. Da allora, tutte le riforme che si sono succedute nei decenni, hanno evitato accuratamente di affrontare la questione.
Il problema dell’alfabetizzazione musicale, dice dati alla mano, è presto dimostrato da numeri che non lasciano adito ad interpretazioni. In Italia, esiste un numero di licei (classico, scientifico, artistico) infinitamente superiore al numero di università, come dire, salendo verso la vetta, il numero di studenti si assottiglia e la piramide si restringe.
Nel caso della musica, non è così. Tralasciando il fatto, già di per sé scandaloso, che nelle scuole dell’obbligo la musica (o educazione musicale) si studi pochissimo, occorre notare che i licei musicali, recentemente introdotti, sono un centinaio in tutta Italia, di cui molti non autosufficienti e perciò “a ricasco” dei più vicini conservatori. Il numero di conservatori, università ad indirizzo musicale e scuole musicali parificate, è invece pari a circa ottanta in totale. Il rapporto, com’è evidente, è di cinque licei musicali per quattro conservatori! Da cui la domanda, dove e come dovrebbero formarsi persone in grado di affrontare studi di alto livello?
Come precedentemente accennato, nel caso di tutte le altre discipline, il rapporto tra licei ed università, è ovviamente molto diverso! Nella sola provincia di Roma ad esempio, a fronte di tre università pubbliche, ci sono più di duecento licei (classico, scientifico, artistico).
Inoltre, i docenti che una volta assunti, continuano a svolgere un’attività lavorativa e di ricerca al di fuori dell’accademia, sono davvero molto pochi. Ne consegue una progressiva differenza di preparazione ed aggiornamento nei confronti dei colleghi stranieri, selezionati spesso, anche in modo forse più meritocratico. Se poi si considera che i programmi didattici sui quali continuiamo a formare i nostri studenti, sono gli stessi degli anni Trenta (quindi di ottanta anni fa!), la questione si colora di tinte tragicomiche.
Nel congedarmi, Zaccagnini mi dice che terrà presto una lezione a proposito dell’ottima colonna sonora che Danny Elfmann scrisse per il Batman di Tim Burton. Qui, lo vedo entusiasmarsi decisamente, e da appassionato di soundtracks quale sono, ne approfitto per chiedergli se un certo snobbismo che gli accademici riservano agli autori di musica da film, non sia un po’ ingeneroso. Mi racconta di quando, alcuni anni fa, ebbe modo di assistere ad una lezione tenuta da Henry Mancini a proposito delle musiche composte per La Pantera Rosa, evento in cui il compositore di Cleaveland, fece sfoggio di un’erudizione musicale di altissimo livello. “Ah, L’America”…