Le voci che danno il presidente della Bce tra i papabili per il Quirinale potrebbero essere smentite l'11 dicembre, quando parlerà a Montecitorio su invito di Daniele Capezzone. L'intervento avverrà a venti giorni dalla data in cui Napolitano, stando a retroscena non smentiti, annuncerà le dimissioni
Segnatevi questa data: 11 dicembre 2014, dalle 14 alle 16. Per la prima volta da quando è diventato presidente della Bce Mario Draghi parlerà al Parlamento italiano. O meglio, alla commissione Finanze della Camera guidata da Daniele Capezzone (Forza Italia), che lo ha invitato alcuni mesi fa: “Parleremo della Bce, certo, ma sarà un’occasione importante per discutere la situazione più complessiva e i deputati della commissione avranno molte cose da chiedere al presidente Draghi”, dice al Il Fatto Quotidiano Capezzone. Al momento dell’audizione mancheranno venti giorni al giorno in cui Giorgio Napolitano potrebbe dichiarare conclusa la sua esperienza da capo dello Stato. Stando ai retroscena non smentiti neppure dal Quirinale, saranno accennate durante il discorso di Capodanno.
Il momento è quindi ideale per Draghi per chiarire un messaggio a cui tiene molto: non si sente in corsa per il Quirinale. “Draghi non ha alcuna intenzione di andare al Quirinale, i suoi compiti e i suoi obiettivi sono del tutto diversi come lui stesso afferma pregando i suoi amici di diffonderla. Cosa che, adempiendo al suo invito, faccio con piacere”, ha scritto domenica su Repubblica Eugenio Scalfari che negli ultimi anni si è attribuito il ruolo di divulgatore del pensiero draghiano, interpellando il presidente della Bce come fonte di ispirazione per gli editoriali domenicali. Sono molto lontani i tempi in cui il fondatore di Repubblica lo definiva “un giovane yuppie di quelli che hanno fatto negli anni ruggenti delle Borse” ma “gli yuppies avevano come obiettivo la ricchezza e da quella misuravano il loro successo, mentre per Draghi il successo coincide con l’estendersi del potere da lui amministrato” (era il 1997, Scalfari non aveva apprezzato una tornata di nomine pubbliche dell’allora direttore generale del Tesoro Draghi).
Il potere di Draghi si è esteso fino a Francoforte, ripiegare su Roma sarebbe un po’ un ridimensionamento che il presidente della Bce non potrebbe però rifiutare se gli venisse chiesto da un vasto schieramento di parlamentari. Per questo, da mesi, lavora per evitare che gli venga proposto: a 67 anni, Draghi resta un operativo, sta guidando la zona euro nella fase più difficile della sua storia, i soffici ambienti del Quirinale e le estenuanti mediazioni della politica domestica non sono il suo ambiente ideale. In teoria può lasciare Francoforte quando crede, ma la lunga durata del suo mandato – la scadenza è a fine 2018 – gli garantisce un alibi concreto per rimanere lontano dalla politica italiana. Idea che non dispiace affatto a Matteo Renzi: il premier sa bene che un presidente della Repubblica così forte gli ruberebbe la scena interna e internazionale, diventerebbe lui il garante della credibilità dell’Italia davanti ai mercati, riducendo il premier a comparsa (“un episodio”, direbbe Massimo D’Alema).
Per il Colle ci vuole anche una personalità “non divisiva”, per usare il gergo dei quirinalisti. E Draghi ha avuto conferma pochi giorni fa che in Italia c’è una confusa ostilità verso il suo attuale ruolo: mercoledì aveva deciso di partecipare di persona alle commemorazioni per il centenario della nascita del suo antico maestro Federico Caffè, all’Università di Roma Tre. Invece che mandare un videomessaggio, come sembrava in un primo momento, Draghi è arrivato all’università e si è trovato al centro di una contestazione di attivisti dei centri sociali, non è mancata qualche manganellata. Eppure il messaggio del presidente della Bce voleva sottolineare la gravità della crisi, cioè proprio quanto denunciavano i manifestanti: “L’attuale, inaccettabile livello della disoccupazione – il 23 per cento dei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni non ha un lavoro – è contro ogni nozione di equità, è la più grande forma di spreco di risorse, è causa di deterioramento del capitale umano, incide sulle potenzialità delle economie diminuendone la crescita per gli anni a venire”, ha detto tra l’altro.
Quando Draghi era allievo di Federico Caffè, molto prima che il grande economista scomparisse nel nulla nel 1987, erano gli anni Settanta, c’era violenza ovunque, e il futuro presidente della Bce lasciò l’Italia per andare a studiare al Mit di Cambridge, negli Stati Uniti. Ma il ricordo di quelle tensioni non lo ha mai abbandonato. E osserva quello che sta succedendo, soprattutto in Italia, con una preoccupazione crescente che traspare dai discorsi ufficiali del presidente della Bce, a cominciare da quello americano a Jackson Hole che ha cambiato il tono del dibattito. In quell’occasione Draghi ha imposto la disoccupazione come priorità nell’agenda politica, non più gli zero virgola del deficit che continuano a ossessionare i tedeschi. L’audizione in Parlamento sarà l’occasione per sollecitare la politica italiana a prendere sul serio una situazione di tensione sociale che finora Renzi ha gestito soltanto con qualche battuta (“Mi tirano le uova? Sono pronto a fare le crepes”).
L’Italia preoccupa molto Draghi che di preoccupazioni però ne ha tante. I mercati spingono perché lanci il Quantitative easing, cioè l’acquisto massiccio di titoli di Stato, le Borse sono ancora agitate dalle conseguenze degli stress test bancari che gli hanno creato qualche problema anche con i colleghi governatori delle Banche centrali nazionali. Il francese Christian Noyer, per esempio, è passato all’opposizione interna al consiglio Bce: non per ragioni ideologiche, ma perché contrario ad affidare la parte tecnica del piano di acquisto di Abs (i derivati che la Bce deve comprare per alleggerire i bilanci delle banche) a operatori privati. Noyer avrebbe voluto affidare quei compiti agli impiegati della Banca di Francia che, come i loro omologhi in giro per l’Europa, hanno sempre più tempo libero con il progressivo accentramento a Francoforte delle funzioni di politica monetaria e vigilanza.
La nuova Commissione europea è già sotto attacco per gli sconti fiscali alle multinazionali concessi da Jean Claude Juncker quando era premier del Lussemburgo. E il nuovo presidente del Consiglio, l’inesperto Donald Tusk, viene dalla Polonia, un Paese fuori dall’euro zona. Il peso dei destini della moneta unica è sempre più soltanto sulle spalle di Draghi. E visto da Francoforte il Quirinale sembra lontanissimo.
Da Il Fatto Quotidiano del 15 novembre 2014