Il 47% dei dirigenti intervistati dallo studio legale Clifford Chance ha mostrato perplessità all'idea di sedere nei consigli di amministrazione per l'aumento dei rischi
Troppi rischi: i top manager hanno sempre più paura di far parte dei vertici delle società. Secondo una ricerca condotta dallo studio legale londinese Clifford Chance, il 47% degli intervistati si è mostrato riluttante a far parte dei board societari per le eccessive responsabilità individuali. Un atteggiamento iniziato con l’acuirsi della crisi nel 2008 e accentuato con la recente estensione della responsabilità penale delle società (e dei presidente) anche ad aree come i crimini ambientali e l’abuso di mercato, tant’è che ci sono cause in atto di società contro i precedenti amministratori/direttori. Anche i manager italiani iniziano dunque a pensarci due volte prima di accettare una poltrona in consiglio di amministrazione, nonostante siano i più pagati d’Europa, guadagnando mediamente più del doppio dei loro colleghi tedeschi.
Lo studio, presentato in un convegno dal titolo Governance e compliance come strumenti per il controllo e la gestione dei rischi, che si è svolto lunedì a Piazza Affari a Milano, evidenzia come in ambito europeo la percentuale dei dirigenti riluttanti sia ancora più alta (52%), dopo l’aumento della responsabilità individuale dei manager, sia civile che penale. Non importa se la società sia quotata in Borsa o meno: se ha commesso un illecito, a risponderne saranno anche i vertici. L’Europa sta seguendo la scia di “criminalizzazione” dei consigli di amministrazione, già in atto negli Stati Uniti subito dopo la crisi. Non a caso, la percentuale dei top-manager americani perplessi a fare il loro ingresso nei vertici societari è del 58 per cento. Oltreoceano, procedure come il Whistleblowing o i Non prosecution agreements hanno aiutato la trasparenza societaria, tutelando da eventuali ritorsioni (come il siluramento) i dipendenti che, in possesso di informazioni su illeciti compiuti dalla loro società, lo comunicano tempestivamente alle autorità di controllo.
Il modello italiano è ancora indietro. “Non va trascurata la percezione negativa che si ha dell’Italia in fatto di rischi – ha spiegato Paolo Sersale, partner di Clifford Chance – Questo gap tra situazione reale e situazione percepita influisce pesantemente sull‘attrattività all’estero delle nostre aziende e dei nostri prodotti, con un danno per l’intero sistema Paese. “In Italia – ha proseguito – dobbiamo confrontarci con un modello già valido come quello americano, seppur migliorabile grazie all’esperienza maturata sul campo. Un primo passo – ha concluso – sarebbe quello di una maggiore collaborazione tra autorità e privati”. “Una composizione troppo ampia del cda, come avviene in alcune realtà italiane come le banche popolari – ha fatto notare Alberta Figari, anch’essa partner dello studio legale inglese – non è funzionale e rende complesso gestire i rischi e fare gli opportuni controlli. Sarebbe importante – ha proseguito – rafforzare il ruolo del collegio sindacale facendo rientrare al suo interno le responsabilità del consiglio di vigilanza”.